tecnici e giuristi insieme: approfondimenti tecnico-giuridici sistematici

Edilizia - Giurisprudenza

TAR Lombardia, Milano, sez. II, 26 luglio 2012

Nozione di densità edilizia e l'istituto dell'asservimento

La sentenza asserisce che:

Si consideri, preliminarmente che, l’istituto dell’asservimento si è formato dopo l’entrata in vigore del decreto ministeriale 2 aprile 1968, che ha fissato gli standards di edificabilità delle aree e ha introdotto una organica regolamentazione della densità edilizia (territoriale e fondiaria).

La nozione di densità costituisce il parametro di riferimento per stabilire se possa farsi luogo ad asservimento; la densità territoriale, in particolare, è riferita a ciascuna zona omogenea e definisce il complessivo carico di edificazione che può gravare sulla stessa, con la conseguenza che il relativo indice è rapportato sia all’intera superficie sottoposta alla medesima vocazione urbanistica sia alla concreta insistenza di costruzioni. (C.D.S. Ad. Pl. n. 3 del 23.4.2009).

Nè può dubitarsi che qualsiasi costruzione, anche se eretta senza il prescritto titolo, concorra al computo complessivo della densità territoriale (C.d.S., IV, 26 settembre 2008, n. 4647; IV, 29 luglio 2008, n. 3766; IV, 12 maggio 2008, n. 2177; IV, 11 dicembre 2007, n. 6346; V, 27 giugno 2006, n. 4117; V, 12 luglio 2005, n. 3777: V, 12 luglio 2004, n. 5039; IV, 6 settembre 1999, n. 1402).

Ora è utile osservare in termini generali che l'asservimento di particelle contigue a quella sulla quale viene posizionato il progetto per la realizzazione di un intervento edilizio nasce da una pratica assai diffusa, che ha da sempre avuto l'avallo della dottrina e della giurisprudenza (v. Corte Cass, Sez.II^ n.9081 del 12 settembre 1998) che vi hanno ravvisato uno strumento legittimo per consentire lo sfruttamento di tutta la potenzialità edificatoria delle aree a disposizione di chi intende realizzare tale intervento, con il quale, di solito, si pone rimedio all'infelice esposizione ovvero alla ridotta dimensione, dell'area di progetto.

Con l'asservimento le aree asservite perdono, in tutto o in parte, ma definitivamente, la loro attitudine edificatoria in favore della particella di progetto, e a tale effetto è richiesto, normalmente, che il proprietario del compendio interessato, debba sottoscrivere un atto d'obbligo ovvero una dichiarazione formale, con il quale, nei riguardi del Comune, s'impegna per sé e per i propri aventi causa a non utilizzare, in seguito, a fini edificatori, le particelle asservite di cui ha, insieme alla particella di progetto, la proprietà o comunque la disponibilità giuridica.

Tuttavia, ad onta della diffusione della suddetta pratica edilizia, rimangono tutt’ora incerti i profili che caratterizzano l’atto costitutivo di tale vincolo, il chè sovente rende problematica la sua effettiva individuazione.

In proposito, la giurisprudenza della Corte di cassazione, seguendo un indirizzo dottrinario, ha segnalato ripetutamente che "la cessione di cubatura da parte del proprietario del fondo confinante, onde consentire il rilascio della concessione a costruire nel rispetto del rapporto area-volume, non necessita di atto negoziale ad effetti obbligatori o reali, essendo sufficiente l'adesione del cedente, che può esser manifestata o sottoscrivendo l'istanza e/o il progetto del cessionario; o rinunciando alla propria cubatura a favore di questi o notificando al comune tale sua volontà, mentre il c.d. vincolo di asservimento rispettivamente a carico e a favore del fondo si costituisce, sia per le parti che per i terzi, per effetto del rilascio della concessione edilizia, che legittima lo ius aedificandi del cessionario sul suolo attiguo, sì che nessun risarcimento è dovuto al cedente” (Cass., 12 settembre 1998, n. 9081; in senso conforme, 22 febbraio 1996, n. 1352; 29 giugno 1981, n. 4245).

La ricostruzione più attendibile della fattispecie, dunque, è quella di un contratto atipico ad effetti obbligatori avente natura di atto preparatorio, finalizzato al trasferimento di volumetria, che si realizza soltanto con il provvedimento amministrativo.

Anche la giurisprudenza amministrativa è propensa a ritenere il c.d. contratto di asservimento ben può costituire il presupposto del rilascio di una concessione edilizia che tenga conto del trasferimento di volumetria e che per il trasferimento della volumetria non sono necessarie forme particolari (C.D.S., sez. V, 26 novembre 1994, n. 1382; C.D.S.,sez. V, 4 gennaio 1993, n. 26).

 

TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 26 luglio 2012

Realizzazione wc e carico urbanistico

La sentenza asserisce che:

La ricorrente assume l’illegittimità del diniego comunale in ragione della circostanza che il manufatto da sanare occuperebbe una parte del sedime di un precedente manufatto, già oggetto di sanatoria, oltretutto in misura più modesta rispetto al precedente. Pertanto, la diminuzione del carico urbanistico del nuovo manufatto (un prefabbricato, per l’esattezza) non dovrebbe determinare alcuna preclusione in ordine alla legittimità dell’intervento per cui è stata richiesta la sanatoria.

3.2. Se in linea astratta le conclusioni della ricorrente possono anche essere condivisibili, nel caso di specie va osservato che il nuovo prefabbricato, che occupa un parte del sedime della costruzione preesistente, ha una diversa destinazione funzionale.

Infatti, pur essendo come il precedente fabbricato al servizio dell’attività svolta dalla ricorrente, tuttavia, a differenza di questo, è destinato a svolgere le funzioni di ufficio e spogliatoio ed è dotato di servizio igienico, con il conseguente naturale e ordinario stazionamento di persone al suo interno. E’ pacifico che il precedente fabbricato era costituito da un ripostiglio e da una tettoia coperta che, ordinariamente, hanno una funzione diversa rispetto a quella scaturente dalla posa del nuovo prefabbricato, in precedenza descritta.

Di conseguenza, pur in presenza di un carico strutturale inferiore al passato, la nuova struttura conferisce un maggior carico urbanistico – anche in ragione dell’installazione di un servizio igienico – e soprattutto pone maggiori problematiche in ordine al rispetto del vincolo cimiteriale, che trova il suo fondamento in ragioni di tutela igienico-sanitaria, oltre che nel decoro dei luoghi (T.A.R. Lombardia, Milano, IV, 22 luglio 2011, n. 1975), come evidenziato nella relazione dell’A.S.L. della Provincia di Milano (all. 4 del Comune).

 

TAR Lombardia, Milano, sez. II, 25 luglio 2012

Qualificazione tecnico-giuridica intervento: spargimento ghiaia

La sentenza asserisce che:

L’opera in questione non è difatti qualificabile quale manutenzione ordinaria, straordinaria, consolidamento statico o restauro conservativo bensì quale nuova costruzione.

Il Collegio non ritiene difatti di doversi discostare dal condivisibile e risalente indirizzo giurisprudenziale secondo cui l'attività di spargimento di ghiaia, su di un'area che ne era precedentemente priva, è da qualificarsi quale nuova costruzione ed è pertanto soggetta a concessione edilizia, allorché sia preordinata, come è avvenuto nel caso di specie, alla modifica della precedente destinazione d'uso (cfr. Cass. pen., 09/06/1982; Cons. Stato, sez. II, 15/02/1989, n. 18/89; C.d.S., sez. V, 22 dicembre 2005, n. 7343; 11 novembre 2004, n. 7324; Consiglio di Stato sez. V, 27 aprile 2012, n. 2450).

Questi principi giurisprudenziali sono stati recepiti dal testo unico in materia edilizia, il D.P.R. n. 380/2001, il quale all’art. 3 ascrive al genus delle nuove costruzioni ed assoggetta a permesso di costruire, "la realizzazione di infrastrutture e di impianti, anche per pubblici servizi, che comporti la trasformazione in via permanente di suolo inedificato" (lett. e. 3) e "la realizzazione di depositi di merci o di materiali, la realizzazione di impianti per attività produttive all'aperto ove comportino l'esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione permanente del suolo inedificato" (e. 7).

Le opere di spargimento di ghiaia non possono, quindi, in alcun modo, essere qualificate quale intervento di manutenzione ordinaria, straordinaria, consolidamento statico o restauro conservativo.

 

TAR Lombardia, Milano, sez. II, 25 luglio 2012

Il silenzio assenso del novellato art. 20 TUED e normativa regionale: efficacia

La sentenza asserisce che:

Il provvedimento di rigetto dell’istanza di permesso di costruire è stato adottato dal Comune il 16.11.2011 e trasmesso al ricorrente il 17.11.2011 (cfr. doc. 1 del ricorrente), mentre il termine di legge di 90 giorni, decorrente dal 12.8.2011, era ormai scaduto il 10.11.2011, per cui – si continua nel gravame – il diniego sarebbe tardivo, essendo intervenuto dopo la formazione tacita del titolo abilitativo, essendo già in vigore il nuovo testo dell’art. 20 del Testo Unico dell’edilizia.

L’Amministrazione resistente si oppone a tali argomenti, sostenendo che le novità legislative del DL 70/2011 non sarebbero state immediatamente applicabili nella Regione Lombardia, nella quale la legge regionale n. 12/2005, all’art. 38, escludeva – perlomeno al momento di presentazione della domanda dell’esponente – la formazione tacita del permesso di costruire.

Il problema posto all’attenzione del Collegio riguarda quindi il rapporto fra la legislazione statale – e segnatamente l’art. 20 del DPR 380/2001, come modificato dalla legge 106/2011 - e la legislazione regionale, nel caso di specie l’art. 38 della LR 12/2005, nel testo vigente nell’anno 2011, che escludeva il rilascio del permesso di costruire attraverso il meccanismo procedimentale del silenzio assenso.

Sul punto, preme ricordare come la disciplina dell’edilizia e dell’urbanistica rientra nella materia del “governo del territorio”, che l’art. 117, comma 3°, della Costituzione attribuisce alla potestà legislativa concorrente dello Stato e della Regione.

Quest’ultima, di conseguenza, può dettare in materia norme legislative di dettaglio, nel rispetto dei principi fondamentali della legislazione statale (cfr. art. 117, comma 3°, ultimo periodo, della Costituzione).

La Corte Costituzionale, con la fondamentale pronuncia n. 303 del 1.10.2003, dopo avere confermato che la disciplina dell’edilizia rientra nella materia del “governo del territorio”, ha stabilito che la disciplina dei titoli abilitativi ad edificare – fra cui si annovera il permesso di costruire – costituisce principio fondamentale della legislazione statale (cfr. il punto 11 della narrativa in “diritto” della citata sentenza della Corte).

Inoltre, attraverso la riforma dell’art. 20 del DPR 380/2001, il nuovo procedimento di rilascio del permesso di costruire rientra senza dubbio fra i procedimenti di formazione tacita degli atti autorizzativi, come previsti e disciplinati in via generale dall’art. 20 della legge 241/1990 (rubricato “Silenzio assenso”).

Orbene, l’art. 29, comma 2 ter della legge 241/1990, stabilisce che le disposizioni delle legge stessa concernenti, fra l’altro, il silenzio assenso, attengono ai livelli essenziali delle prestazioni di cui all’articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, quindi addirittura ad una materia oggetto di potestà legislativa esclusiva dello Stato.

Lo stesso decreto legge 70/2011 (cfr. l’epigrafe del medesimo), è stato emanato per favorire lo sviluppo e la ripresa dell’economia, da realizzarsi anche attraverso la semplificazione dei procedimenti in materia edilizia, sicché l’intervento normativo di riforma dell’art. 20 del DPR 380/2001 appare obbedire a finalità che trascendono gli ambiti di intervento delle singole Regioni.

Ciò premesso, il nuovo testo dell’art. 20 del Testo Unico dell’edilizia, laddove prevede il silenzio assenso sulla domanda di permesso di costruire, rappresenta un principio fondamentale della legislazione statale nella materia del governo del territorio; di conseguenza esso prevale sulle norme regionali di dettaglio, tenendo conto sia dell’art. 2, commi 1° e 3°, del DPR 380/2001 sia dell’art. 10 della legge n. 62 del 10.2.1953, per il quale le norme statali di principio sopravvenute prevalgono sulle vigenti norme regionali di dettaglio, che devono reputarsi abrogate (sulla perdurante vigenza del citato art. 10, si vedano: TAR Veneto, sez. III, 28.11.2011, n. 1786; TAR Liguria, sez. I, 12.6.2010, n. 4666 e Cassazione, sez. lavoro, 5.5.2010, n. 10829).

Sulla domanda di permesso di costruire, presentata dall’esponente il 12.8.2011, si è pertanto formato il titolo edilizio per effetto del silenzio assenso, per cui il diniego ivi impugnato deve reputarsi illegittimo, essendo sopravvenuto all’intervenuta formazione del titolo tacito.

Neppure l’atto impugnato potrebbe qualificarsi come un valido atto di autotutela amministrativa (sempre possibile anche in caso di intervenuto silenzio assenso, stante l’espressa previsione dell’art. 20, comma 3° della legge 241/1990), in quanto esso risulta adottato al di fuori dei presupposti di legge (articoli 21 quinquies e 21 nonies della legge 241/1990), per l’esercizio del potere di autotutela, mancando nel provvedimento qualsivoglia comparazione degli interessi pubblici e privati coinvolti.

TAR Lombardia, Milano, sez. II, 20 luglio 2012

Gli extraspessori strutturali e loro utilizzo per sanatorie edilizie

La sentenza asserisce che:

4.3.1. Sul punto, il Comune nega l’applicabilità ex post, in sede di variante (e/o di sanatoria), della disciplina sul contenimento del consumo energetico di cui al d.lgs. n. 115/2008.

4.3.2. Il motivo è infondato.

4.3.3. Ritiene il Collegio che l’impostazione comunale debba essere condivisa, nel senso che, la disciplina statale e regionale volta ad agevolare il perseguimento del risparmio energetico negli interventi edilizi (cfr. art. 11 d.lgs. n. 115/2008; legge regionale n. 26/1995 e relativa circolare regionale di cui al d.dirett. reg. 7.08.2008 n. 8935), non si presta ad essere interpretata alla stregua di una disciplina di sanatoria di interventi edilizi già realizzati.

In essa, infatti, è chiaramente richiesto agli interessati di allegare al progetto originario apposita relazione tecnica, corredata da calcoli e grafici dimostrativi della riduzione del fabbisogno energetico e della trasmittanza termica, che costituisce parte integrante del progetto medesimo (cfr. circolare regionale cit.).

Per la deroga alle distanze minime e alle altezze massime di cui all’art. 11 cit., quindi, è necessario che l’amministrazione si esprima sulla base del progetto e dei dati tecnici richiesti ai sensi della ridetta normativa, prima che l’intervento medesimo abbia luogo.

Nel caso di specie, al contrario, nel progetto originario di cui alla dia D33/2008 non v’era alcuna traccia della volontà delle parti di avvalersi della disciplina sul contenimento energetico, essendo stato, il ricorso a detta disciplina, prospettato dalla difesa ricorrente soltanto dopo la realizzazione delle difformità e l’intervento sanzionatorio comunale.

In siffatte evenienze, deve essere, quindi, ribadita la legittimità dell’operato comunale, che ha ritenuto inammissibile la dia in variante a fronte delle riscontrate difformità rispetto al progetto originario, non superabili neppure con l’applicazione postuma della cit. disciplina sul risparmio energetico.
...
5.1.6. Come chiarito dalla resistente amministrazione, la normativa di cui agli artt. 11 d.lgs. 115/2008 e 1 e ss. legge reg. n.26/1995 e ss. m. e i., non si applica al permesso di costruire in sanatoria, postulando la stessa una valutazione ex ante da parte dell’amministrazione, da esprimersi prima della realizzazione dell’intervento e previa presentazione di apposita relazione di certificazione del contenimento del consumo energetico conseguito con l’intervento medesimo.

Nel caso di specie, giova ribadire, i ricorrenti hanno dapprima presentato una D.I.A. per ristrutturazione, senza prevedere le misure di contenimento energetico, anzi impegnandosi al rispetto della sagoma e delle altezze preesistenti; indi, hanno posto in essere delle rilevanti variazioni, pretendendo di sminuirne l’essenzialità mediante l’applicazione in sanatoria della normativa sul risparmio energetico.

5.1.7. In siffatte evenienze, il Collegio deve ribadire quanto già evidenziato sub n. 4.3.3., dovendosi condividere l’impostazione comunale che, valorizzando la vera ratio della disciplina statale e regionale di cui agli artt. 11 d.lgs. n. 115/2008; 1 e ss. legge regionale n. 26/1995 e s.m. e i. (e relativa circolare di cui al d.dirett. reg. 7.08.2008 n. 8935) tesa ad agevolare il perseguimento del risparmio energetico negli interventi edilizi, ne esclude un’applicazione ex post, alla stregua di una disciplina di sanatoria di interventi edilizi già realizzati. Si richiamano, per il resto, le valutazioni già espresse in precedenza, richiamandosi alle relative conclusioni.

5.1.8. A corroborare quanto sin qui evidenziato, si può solo accennare alla circostanza che, in sede di permesso di costruire in sanatoria, un ulteriore ostacolo all’applicazione della normativa da ultimo cit. è rappresentato dalla mancanza della cd. doppia conformità.

Il permesso in sanatoria, infatti, postula imprescindibilmente una sostanziale conformità dell'opera abusiva alla vigente disciplina urbanistica, sia al momento della perpetrazione di detto abuso che al tempo della presentazione della pertinente istanza di sanatoria, “nella prospettiva di una più solida salvaguardia degli interessi pubblici connessi alla tutela delle esigenze urbanistiche” (così Consiglio Stato, sez. V, 08 settembre 2011, n. 5056; T.A.R. Milano, sez. II, 08 settembre 2011, n. 2195).

 

Consiglio di Stato, sez. IV, 10 luglio 2012

Parcheggi pertinenziali ex lege Tognoli n. 122/89, art. 9

La sentenza asserisce che:

Ciò premesso, rammenta il Collegio che l’art. 9 della legge n. 122/1989, nella versione applicabile ratione temporis alla fattispecie per cui è causa, così prevedeva:

“I proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti. Tali parcheggi possono essere realizzati, ad uso esclusivo dei residenti, anche nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato, purché non in contrasto con i piani urbani del traffico, tenuto conto dell'uso della superficie sovrastante e compatibilmente con la tutela dei corpi idrici. Restano in ogni caso fermi i vincoli previsti dalla legislazione in materia paesaggistica ed ambientale ed i poteri attribuiti dalla medesima legislazione alle regioni e ai Ministeri dell'ambiente e per i beni culturali ed ambientali da esercitare motivatamente nel termine di 90 giorni. I parcheggi stessi, ove i piani urbani del traffico non siano stati redatti, potranno comunque essere realizzati nel rispetto delle indicazioni di cui al periodo precedente.

L'esecuzione delle opere e degli interventi previsti dal comma 1 è soggetta ad autorizzazione gratuita. Qualora si tratti di interventi conformi agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti, l'istanza per l'autorizzazione del Sindaco ad eseguire i lavori si intende accolta qualora il Sindaco stesso non si pronunci nel termine di 60 giorni dalla data della richiesta. In tal caso il richiedente può dar corso ai lavori dando comunicazione al Sindaco del loro inizio.

Le deliberazioni che hanno per oggetto le opere e gli interventi di cui al comma 1 sono approvate salvo che si tratti di proprietà non condominiale dalla assemblea del condominio, in prima o in seconda convocazione, con la maggioranza prevista dall'articolo 1136, secondo comma, del codice civile. Resta fermo quanto disposto dagli articoli 1120, secondo comma, e 1121, terzo comma, del codice civile.

I comuni, previa determinazione dei criteri di cessione del diritto di superficie e su richiesta dei privati interessati o di imprese di costruzione o di società anche cooperative, possono prevedere, nell'ambito del programma urbano dei parcheggi, la realizzazione di parcheggi da destinare a pertinenza di immobili privati su aree comunali o nel sottosuolo delle stesse. Tale disposizione si applica anche agli interventi in fase di avvio o già avviati. La costituzione del diritto di superficie è subordinata alla stipula di una convenzione nella quale siano previsti:

a) la durata della concessione del diritto di superficie per un periodo non superiore a novanta anni;

b) il dimensionamento dell'opera ed il piano economico-finanziario previsti per la sua realizzazione;

c) i tempi previsti per la progettazione esecutiva, la messa a disposizione delle aree necessarie e la esecuzione dei lavori;

d) i tempi e le modalità per la verifica dello stato di attuazione nonché le sanzioni previste per gli eventuali inadempimenti.

I parcheggi realizzati ai sensi del presente articolo non possono essere ceduti separatamente dall'unità immobiliare alla quale sono legati da vincolo pertinenziale. I relativi atti di cessione sono nulli.

Le opere e gli interventi di cui ai precedenti commi 1 e 4, nonché gli acquisti di immobili destinati a parcheggi, effettuati da enti o imprese di assicurazione sono equiparati, ai fini della copertura delle riserve tecniche, ad immobili ai sensi degli articoli 32 ed 86 della legge 22 ottobre 1986, n. 742. ”.

La giurisprudenza amministrativa ha interpretato detta disposizione in coerenza con la ratio della medesima (ed anche con la ratio delle modifiche via via introdotte dall'art. 17, comma 90, l. 15 maggio 1997, n. 127 e dall'art. 37, l. 7 dicembre 1999, n. 472) orientata a privilegiare lo scopo della “legge Tognoli” di far fronte alla carenza di parcheggi urbani.

Non altro senso, può attribuirsi all’estensione del concetto di pertinenzialità, affermato a più riprese da questa IV Sezione del Consiglio di Stato, sia sotto il profilo soggettivo (“i parcheggi collocati in aree esterne ai fabbricati, a differenza di quelli posti nel sottosuolo o al piano terreno degli stessi, non devono essere realizzati necessariamente dai proprietari dell’immobile, ma - in base alla legge Tognoli - possono esserlo anche da terzi: evidentemente il legislatore, non potendo escludersi che le <aree pertinenziali esterne> potessero appartenere a soggetti diversi dai proprietari dell’immobile, ha ritenuto di non dover limitare solo a questi ultimi la legittimazione a chiedere il permesso per realizzarvi i parcheggi. Peraltro, la pertinenzialità che il legislatore ha inteso considerare in questo caso non è tanto quella materiale esistente tra l’edificio e l’area - sottostante, interna o esterna - destinata ad accogliere il parcheggio, ma quella giuridica esistente tra ciascun singolo posto auto da realizzare e una specifica unità immobiliare, nel senso di creare fra di essi un nesso di inscindibilità: ciò che è coerente con la <ratio> della l. n. 122 del 1989, che è quella di venire incontro al bisogno di parcheggi dei residenti nelle aree urbane evitando al tempo stesso operazioni speculative.” Consiglio Stato , sez. IV, 31 marzo 2010 , n. 1842), che sotto il profilo “oggettivo” (“la nozione edilizia di pertinenzialità ha connotati significativamente diversi da quelli civilistici, assumendo in essa rilievo decisivo non tanto il dato del legame materiale tra pertinenza ed immobile principale, quanto il dato giuridico che la prima risulti priva di autonoma destinazione e di autonomo valore di mercato e che esaurisca la propria destinazione d'uso nel rapporto funzionale con l'edificio principale, così da non incidere sul carico urbanistico.” Consiglio Stato, sez. IV, 31 marzo 2010, n. 1842, prima richiamata; ma si veda anche:“ai fini dell'applicazione dell'art. 9, l. 24 marzo 1989 n. 122 (cd. legge Tognoli), relativamente alla realizzazione di parcheggi nel sottosuolo di area pertinenziale esterna al fabbricato in deroga alle disposizioni degli strumenti urbanistici, è irrilevante che detta area esterna non si trovi in rapporto di immediata contiguità materiale con il fabbricato e sia di proprietà di soggetto diverso dal proprietario dell'immobile nei cui confronti i parcheggi sono destinati a divenire pertinenziali"- Consiglio Stato, sez. IV, 18 ottobre 2010, n. 7549).

Detto favor realizzativo, e detta interpretazione estensiva, trovano simmetrica corrispondenza negli approdi cui è giunta la giurisprudenza di legittimità penale (si veda Cassazione penale, sez. III, 03 marzo 2009, n. 14940, dove si precisa che “il rapporto di pertinenzialità è riconoscibile nel caso in cui i boxes si trovano in un ragionevole raggio di accessibilità pedonale”.).

Al contempo, la consolidata giurisprudenza amministrativa (Consiglio di stato, sez. IV, 28 marzo 2011 , n. 1879) ha costantemente ribadito che “l'art. 9 della stessa, nel prevedere per i parcheggi la derogabilità degli strumenti urbanistici, fa salvi i vincoli previsti dalla legislazione in materia paesaggistica ed ambientale.” (si veda, sul punto, di recente, anche T.A.R. Lazio Roma, sez. I, 18 gennaio 2011, n. 382).

 

Consiglio di Stato, sez. V, 5 luglio 2012

Agibilità - finalità e contenuto del provvedimento

La sentenza asserisce che:

Il certificato di abitabilità, come è noto, certifica l'idoneità dell’immobile o di sua porzione ad essere adibita ad uso abitativo.

Tale idoneità viene riscontrata verificando la statica dell'edificio e la sua salubrità ed accertando che siano soddisfatti alcuni criteri principalmente riguardanti la distribuzione dei vani e le rispettive volumetrie, nonché consistenza, dislocamento e funzionalità degli impianti essenziali quali, quello idrico e fognario (in tempi recenti alle verifiche da effettuarsi in base al TU n. 1265 del 1934, si sono aggiunte quelle relative alle nuove normative di sicurezza, antinfortunistica, accessibilità e risparmio idrico ed energetico, anche in recepimento di normativa comunitaria).

Trattasi di procedura essenzialmente declaratoria.

Il certificato va richiesto per le nuove costruzioni e per gli interventi di ricostruzione o sopraelevazione totali o parziali, nonché per interventi sugli edifici esistenti che possano influire sulle condizioni originarie.

L'obbligo di tale certificato, introdotto con il Regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265, successivamente modificato e sostituito dal d.p.r. 22 aprile 1994, n. 425, da ultimo è disciplinato dal d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380.

 

TAR Veneto, sez. II, 5 luglio 2012

Valutazioni civilistiche nell'ambito dei procedimenti edilizi

La sentenza asserisce che:

Da ultimo, va esaminato il profilo attinente il rispetto della veduta, ai sensi dell’art. 907 c.c.

A tale riguardo, il Collegio osserva preliminarmente come seppure si tratti di un profilo attinente tematiche prettamente civilistiche e sebbene i titoli edilizi siano sempre rilasciati con salvezza dei diritti dei terzi, di modo che la valutazione che l’amministrazione deve operare al fine del legittimo rilascio del titolo edilizio rimanga sempre nell’ambito dell’accertata compatibilità dell’intervento sotto il profilo urbanistico-edilizio, ossia per profili di carattere pubblicistico, è tuttavia da rilevare come l’istruttoria dell’amministrazione, a fronte di una istanza di concessione edilizia, non possa prescindere del tutto dall’indagine circa la sussistenza dei requisiti di rispetto delle disposizioni di carattere civilistico che in qualche misura possono condizionare il libero esercizio del diritto di costruire.

Sebbene quindi valga il principio generale della salvezza dei diritti dei terzi, i quali potranno sempre rivolgersi al giudice ordinario per tutelare la compromissione di eventuali loro prerogative, nella specie non poteva non essere rilevata la circostanza per cui il nuovo edificio avrebbe compromesso la veduta dall’alto della torretta posta sull’ultimo piano dell’edificio del ricorrente, veduta esistente e utilizzabile, così come accertato dalla prima perizia effettuata in sede civile (CTU ing. Favalli del 16.5.1997, doc. n. 5 parte ricorrente).

Detta circostanza, che si aggiunge alla già rilavata inosservanza delle norme sulle distanze, consente di confermare, anche sotto tale profilo, la denunciata illegittimità del titolo rilasciato al controinteressato.

 

TAR Veneto, sez. II, 5 luglio 2012

La l.r. n. 14/09 (piano casa) non può sanare abusi edilizi

La sentenza asserisce che:

Ritiene il Collegio che tale ultima linea interpretativa non sia totalmente condivisibile.

Infatti - se è vero che l’art. 38 DPR n. 380/2001, come interpretato dalla giurisprudenza maggioritaria, non escluderebbe la possibilità di sanare, mediante il rilascio di un nuovo titolo abilitativo sostitutivo di quello annullato, un’ intervento divenuto legittimo e conforme al PRG per effetto di norme sopravvenute, così evitando l’applicazione delle sanzioni di cui all’art. 38 DPR n. 380/2001 - ciò che nel caso di specie impediva la “regolarizzazione” dell’intervento abusivo è proprio il disposto della legge sopravvenuta sul “piano casa”, che alla lettera e) dell’art. 9, espressamente esclude dai benefici di legge, gli edifici “anche parzialmente abusivi soggetti all’obbligo della demolizione”.

Ebbene, essendo chiaro che la finalità della legge regionale n. 14/2009 è quella di rilanciare l’attività edilizia e di incentivare gli interventi di qualità e giammai quella di sanare ampliamenti abusivi già realizzati, nel caso di specie ci troviamo di fronte proprio ad un “edificio parzialmente abusivo soggetto all’obbligo della demolizione”.

“Abusivo”, perché realizzato sulla base di un permesso di costruire annullato, per vizi sostanziali, con effetto retroattivo. In altre parole, il fabbricato in questione è abusivo perché costruito in violazione del limite di altezza stabilito dalle norme attuative del PRG. Il permesso rilasciato, una volta annullato, non ha più alcun effetto autorizzativo e l’opera realizzata con permesso inefficace è da ritenersi come priva di permesso. La buona fede del costruttore e degli altri soggetti responsabili non incide sul carattere abusivo dell’opera, ma è tutelata solo con l’applicazione di una sanzione pecuniaria (alternativa all’ordine di demolizione) ridotta rispetto ai casi di costruzione in difformità dal permesso di costruire. Per il resto, “la posizione di colui che abbia realizzato l’opera sulla base di un titolo inizialmente assentito e dopo annullato non si differenzia dagli altri soggetti che hanno invece realizzato l’opera abusiva senza titolo” ( Cons. St. A.P. n. 4/2009)

Inoltre, l’edificio in questione è “soggetto (in astratto) all’ordine di demolizione”, perché questa è la sanzione prevista dall’art. 38 citato, in alternativa a quella pecuniaria, per il caso di annullamento del permesso di costruire per vizi sostanziali.

In conclusione, la legge regionale n. 14/09 sul “piano casa” non poteva essere utilizzata per “regolarizzare” un immobile abusivo, a ciò ostando le finalità della legge ed il chiaro dettato dell’art. 9, lett. e).

 

TAR Veneto, sez. II, 5 luglio 2012

La motivazione del diniego del titolo abilitativo edilizio: contenuti

La sentenza asserisce che:

Infatti, poiché l’attività edilizia è limitata solo dalle norme che la regolamentano, la concessione edilizia non può essere negata, e non possono essere posti altri impedimenti, se non sussistono precise norme che ne impediscano il rilascio.

Pertanto, la concessione edilizia si configura come un provvedimento amministrativo di conformità del progetto alla disciplina urbanistica ed edilizia della zona, di natura vincolata e non discrezionale, con la conseguenza che il diniego di rilascio può fondarsi esclusivamente sull’accertata difformità del progetto rispetto alle specifiche previsioni urbanistiche della zona cui il progetto si riferisce (cfr. CdS sez. IV, n. 7263/2005).

Nel caso di specie, il provvedimento impugnato è viziato da difetto di motivazione e da eccesso di potere per sviamento, in quanto l’amministrazione, anziché verificare la conformità dell’opera progettata (piste per l’automodellismo) alle norme urbanistiche vigenti, ha operato una valutazione sui possibili intenti, non dichiarati, della società Calcestruzzi Danese s.p.a., giungendo a ritenere, in maniera del tutto apodittica, che tale intervento fosse da qualificare come attività estrattiva e dunque soggetta al particolare regime autorizzativo di cui alla legge regionale n. 44/1982 sulle attività di cava. Quando, peraltro, l’art. 2 , comma 2, di tale legge, proprio al fine di superare un tale possibile impasse, stabilisce espressamente che “i lavori effettuati nel terreno ove è in corso la costruzione di opere pubbliche e private appartengono ai movimenti di terra e non sono soggetti alla presente normativa”.

Inoltre, anche la valutazione d’impatto ambientale dell’opera progettata, appare all’evidenza estranea alle competenze del Sindaco e alla valutazione che egli era chiamato ad operare di conformità dell’opera in progetto alla strumentazione urbanistica vigente.

 

TAR Veneto, sez. II, 5 luglio 2012

Diritto di panorama (sul lago) e legittimazione ad impugnare

La sentenza asserisce che:

Appare al contrario dirimente rilevare come la parte ricorrente non abbia dato prova, e riscontro alcuno, circa il presumibile danno patrimoniale, o l’eventuale lesione – anche solo potenziale -, che avrebbe potuto subire e, in ciò, al fine di far desumere l’esistenza di un effettivo, differenziato e qualificato, interesse all’annullamento del provvedimento impugnato.

Detta mancanza di interesse a ricorrere non è superabile nemmeno condividendo le tesi del ricorrente in base alla quale, sussisterebbe un non meglio precisato “rilievo paesaggistico” dell’area di cui si tratta, circostanza quest’ultima che non sono appare sufficientemente circostanziata e qualificata, ma non permette altresì di fondare una relazione causa ed effetto, in termini di danno potenziale.

Nella sostanza non si comprende come il riferimento alla nozione del “rilievo paesaggistico” possa attribuire una posizione differenziata e qualificata ai ricorrenti e, ciò, rispetto alla totalità degli altri residenti in quella determinata area o Comune.

Il Consiglio di Stato (Sez. IV, Sent., 30-11-2010, n. 8364) ha affermato che” la lesione arrecata dal provvedimento impugnato deve essere effettiva, nel senso che dall'esecuzione di esso discenda in via immediata e diretta un danno certo alla sfera giuridica del ricorrente, ovvero potenziale”.

Altra Giurisprudenza ha sancito, ancora, che il mancato godimento del “panorama” non è di per sé sufficiente a costituire il solo titolo di legittimazione all’azione e, ciò, laddove non si concreti nella violazione di norme in materia ambientale o sulle distanze tra le costruzioni (Cassazione civile II sez. 25 Agosto 1992 n. 9859).

Risulta, allora, evidente come gli orientamenti sopra citati (si veda anche il Consiglio di Stato sez. IV n. 6157 del 04/12/2007) - rispetto ai quali questo Collegio ritiene di aderire-, hanno sancito l’esistenza di un interesse a ricorrere nei confronti del proprietario confinante tutte le volte che si sia in presenza di una lesione attuale di uno specifico interesse di natura urbanistico-edilizia nella sfera dell’istante che, in quanto tale, è suscettibile di determinare “una rilevante e pregiudizievole alterazione del preesistente assetto edilizio ed urbanistico che il ricorrente intende conservare”.

 

TAR Veneto, sez. II, 5 luglio 2012

Interventi pertinenziali non sono sanzionabili con la demolizione

La sentenza asserisce che:

attese le dimensioni e le caratteristiche funzionali del manufatto abusivamente realizzato;

il ricorso appare meritevole di accoglimento, atteso che il manufatto per dimensioni (che il Comune non contesta siano nei limiti di cui all’art. 76, comma 1, della L.R. 61/85) e per destinazione al servizio dell’edificio principale, si rivela di natura pertinenziale e, quindi, essendo soggetto ad autorizzazione, non è sanzionabile con la demolizione, né è stata evidenziata la sussistenza di un vincolo esistente sull’area ove lo stesso è stato realizzato;

per detti motivi il ricorso va accolto, con conseguente annullamento dell’atto impugnato.

 

Consiglio di Stato, sez. IV, 28 maggio 2012

Annullamento in autotutela - motivazioni presupposte

La sentenza asserisce che:

Questa Sezione ha già avuto modo di chiarire, con avviso del tutto condivisibile, che l’errata o insufficiente rappresentazione delle circostanze di fatto e di diritto poste alla base del rilascio della concessione edilizia, che diversamente non sarebbe stata rilasciata, costituisce da sola ragione sufficiente per giustificare un provvedimento di annullamento di ufficio della concessione medesima ed ha, altresì, precisato che, in una tale situazione, può prescindersi dal contemperamento dell’interesse privato con un interesse pubblico attuale e concreto (cfr. sez. IV^, n. 6554 del 24 dicembre 2008). Ciò perché, ai fini dell'annullamento d'ufficio di una concessione edilizia, è ben vero necessario, in linea di principio, l'accertamento della sussistenza di una situazione di interesse pubblico attuale e concreto che giustifichi il ricorso all'autotutela, ma da tale valutazione si può prescindere quando risulti che il rilascio della concessione è derivato da un'erronea rappresentazione (non importa se dolosa o colposa) dei fatti da parte del privato richiedente.

Tale avviso, peraltro, si è da tempo pacificamente radicato nella giurisprudenza anche di altre sezioni di questo Consiglio (cfr. C.G.A.R.S. n. 552 del 13 settembre 2011; CdS, Sez. V^, n. 592 del 8 febbraio 2010 e n. 6554 del 12 ottobre 2004), che hanno parimenti escluso la necessità di una comparata ponderazione dell'interesse pubblico all'annullamento d'ufficio di un atto amministrativo e dell'interesse oppositivo del privato, quando si sia in presenza di sostanziale negligenza del privato stesso, il quale, per insufficiente rappresentazione di circostanze di fatto, non importa se per colpa o per dolo, abbia contribuito all'errore dell'Amministrazione inducendola, sostanzialmente, ad adottare atti poi rivelatisi palesemente illegittimi.

Orbene, se è vero, come affermato dall’appellante nella memoria depositata il 9 febbraio 2012, che è ius receptum che l'annullamento di ufficio di un provvedimento debba essere sorretto anche da autonome ed attuali ragioni di pubblico interesse, laddove incida su posizioni giuridiche che risultino ormai consolidate in ragione del tempo trascorso dall'emanazione del provvedimento annullato ed in ragione dell'affidamento sulla sua legittimità ingenerato nei suoi destinatari, siccome atto proveniente dall'amministrazione pubblica, è, però, corollario di tale principio, alla stregua della citata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, che il Collegio condivide, che non occorre la presenza di preminenti ragioni di interesse pubblico quando il soggetto nei cui confronti si esercita il potere di annullamento non sia in buona fede.

Nel caso in esame, ben può ritenersi che siano sussistenti le condizioni evidenziate dalla richiamata giurisprudenza, cioé l’erronea rappresentazione (non importa se dolosa o colposa) dei fatti da parte del privato e la conseguente negligenza da questi manifestata, al fine di prendere atto della carenza di buona fede in capo al privato stesso nel richiedere i due permessi di costruire annullati di ufficio, nella specie, con il provvedimento impugnato.

 

Consiglio di Stato, sez. IV, 17 maggio 2012

Regime delle distanze - nozione di costruzione

La sentenza asserisce che:

Rileva in proposito il Collegio che per condivisa giurisprudenza di questo Consiglio di Stato

“in tema di distanze legali tra edifici o dal confine, mentre non sono a tal fine computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, di finitura od accessoria di limitata entità, come le mensole, le lesene, i cornicioni, le grondaie e simili, invece, rientrano nel concetto civilistico di costruzioni, le parti dell'edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati (c.d. aggettanti) che, se pur non corrispondono a volumi abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare la consistenza del fabbricato.

Lo stesso può dirsi per le opere di contenimento, quali indubbiamente si configurano quelle di cui al caso di specie che, comunque progettate in relazione alla situazione dei luoghi ed alla soluzione esteticamente ritenuta più confacente dal committente, hanno una struttura che deve essere idonea per consistenza e modalità costruttive ad assolvere alla funzione di contenimento ed una funzione, che non è quella di delimitare, proteggere ed eventualmente abbellire la proprietà, ma essenzialmente di sostenere il terreno al fine di evitare movimenti franosi dello stesso. Opere tali da dovere essere riguardate, sotto il profilo edilizio, come opere dotate di una propria specificità ed autonomia, in una accezione che comprende tutte le caratteristiche proprie dei fabbricati, donde l'obbligo di rispetto di tutti gli indici costruttivi prescritti dallo strumento urbanistico e, in particolare, delle distanze dal confine privato.”(Consiglio Stato , sez. IV, 30 giugno 2005 , n. 3539)

In modo pressoché simmetrico, la giurisprudenza civile di legittimità ha ancora di recente condivisibilmente affermato che “ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze legali di origine codicistica o prescritte dagli strumenti urbanistici in funzione integrativa della disciplina privatistica, la nozione di costruzione non si identifica con quella di edificio ma si estende a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell'opera.”(Cassazione civile , sez. II, 17 giugno 2011 , n. 13389).

La giurisprudenza civile di merito, altrettanto condivisibilmente, ad avviso del Collegio ha poi fatto presente che ai fini del rispetto delle distanze fra costruzioni, non rileva il materiale utilizzato per la fabbrica, richiedendosi soltanto una durevolezza dell'opera comunemente riconoscibile anche alle opere in legno o ferro od altri materiali leggeri, purché infissi al suolo non transitoriamente.

Ne consegue la permanente vigenza dell’insegnamento della Corte di legittimità secondo il quale

“costituisce costruzione, agli effetti della disciplina del c.c. sulle distanze legali, ogni manufatto che, per struttura e destinazione, ha carattere di stabilità e permanenza . (Nella specie il manufatto, con finestra, era coperto da tettoia formata da travi con soprastanti lamiere, ed era destinato a fienile, magazzino e pollaio). “(Cassazione civile , sez. II, 24 maggio 1997 , n. 4639).

Per completezza – tenuto conto dei profili sollevati dall’appellato nella propria memoria di replica- si evidenzia che analoga nozione estensiva del concetto di “fabbricato” è stata dettata dalla Corte di Cassazione ai fini dell'art. 907 c.c., diretto a preservare l'esercizio delle vedute da ogni eventuale ostacolo con carattere di stabilità, “in quanto la nozione di costruzione è comprensiva non solo dei manufatti in calce e mattoni, ma di qualsiasi opera che, indipendentemente dalla forma e dal materiale con cui è stata realizzata, determini un ostacolo del genere. (Nella specie, il giudice del merito aveva ritenuto che costituisse costruzione nel senso anzidetto una veranda che ostacolava la veduta dal balcone e dalla finestra sovrastanti, anche se ottenuta mediante la posa in opera, su correntini infissi nel muro, di lastre di fibrocemento facilmente asportabili, in quanto bullonate a tali correntini. La C.S., nell'enunciare il precisato principio di diritto, ha confermato tale decisione).”

(Cassazione civile , sez. II, 21 ottobre 1980 , n. 5652)

 

Consiglio di Stato, sez. IV, 17 maggio 2012

Carico urbanistico ed oneri di urbanizzazione

La sentenza asserisce che:

Il giudice di primo grado ha ritenuto che l’intervento, consistente nella realizzazione di servizi igienici e di un muro divisorio, avendo trasformato parzialmente il fabbricato da capannone artigianale in parte alla funzione artigianale e in parte ad autorimessa, consisterebbe in una ristrutturazione edilizia, assoggettata come tale agli oneri concessori pretesi dal Comune.

L’appello sostiene che non vi sarebbe carico urbanistico, che non vi è mutamento di destinazione, perché la destinazione a garage non è incompatibile con la destinazione di zona artigianale; l’autorimessa rientra in ciò che prevedeva il PRG comunale vigente al momento dell’intervento, che stabiliva che nelle zone artigianali è consentita la costruzione di “opifici, magazzini, depositi, silos, rimesse, laboratori di ricerca ed analisi, uffici e mostre connesse con attività industriali, ecc”; nella specie, non si tratterebbe di opere di ristrutturazione.

I motivi di appello sono infondati.

La giurisprudenza di questo Consesso ha già chiarito che il generale principio di correlare gli oneri di urbanizzazione al carico urbanistico, la ristrutturazione edilizia comporta tale dovere allorchè sussista tale carico, che va riscontrato anche in caso di divisione e frazionamento di immobile che da uno si trasforma in due unità, con distinti ingressi e servizi (così Consiglio di Stato, IV, 29 aprile 2004, n.2611; per esempio, nel senso che in caso di mutamento di destinazione d' uso siano dovuti gli oneri concessori, Consiglio Stato , sez. IV, 28 luglio 2005 , n. 4014).

Anche in tale ipotesi, consistente nella divisione e frazionamento di una unità immobiliare in due o più unità, stante l’autonoma utilizzabilità delle stesse, si realizza un aumento dell’impatto sul territorio e sono dovuti i relativi oneri.

D’altronde, che i lavori realizzati abbiano prodotto due distinte e, come tali, fruibili, unità immobiliari costituisce ammissione della stessa parte appellante.

Ai fini dell'insorgenza dell'obbligo di corresponsione degli oneri concessori, è rilevante il verificarsi di un maggior carico urbanistico quale effetto dell'intervento edilizio, sicché non è neanche necessario che la ristrutturazione interessi globalmente l'edificio - con variazioni riguardanti nella loro interezza le parti esterne ed interne del fabbricato - ma è soltanto sufficiente che ne risulti comunque mutata la realtà strutturale e la fruibilità urbanistica, con oneri conseguentemente riferiti all'oggettiva rivalutazione dell'immobile e funzionali a sopportare l'aggiuntivo carico «socio - economico » che l'attività edilizia comporta, anche quando l'incremento dell'impatto sul territorio consegua solo a marginali lavori dovuti ad una divisione o frazionamento dell'immobile in due unità o fra due o più proprietari.

 

Consiglio di Stato, Sez. IV, 17 maggio 2012

Utilizzo di CTU in sede civile o le perizie in sede penale nel processo amministrativo - distanze: regime - nozioni di costruzione e di interrato

La sentenza asserisce:

Al contrario di quanto sostenuto dall’appellante e dall’amministrazione comunale, infatti, da un canto la condivisibile giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha a più riprese affermato che “il giudice di merito può utilizzare, in mancanza di qualsiasi divieto di legge, anche prove raccolte in diverso giudizio fra le stesse o altre parti, come qualsiasi altra produzione delle parti stesse e può, quindi, avvalersi anche di una consulenza tecnica ammessa ed espletata in diverso procedimento, valutandone liberamente gli accertamenti ed i suggerimenti una volta che la relativa relazione peritale sia stata ritualmente prodotta dalla parte interessata.” (ex multis, ancora di recente Consiglio Stato, sez. V, 19 gennaio 2009, n. 223).

Per altro verso, il detto principio (giustificato dal principio di economia dei mezzi probatori e nella salvaguardia del principio del libero convincimento giudiziale) è perfettamente simmetrico a quello espresso dal Giudice di legittimità civile (Cassazione civile, sez. II, 19 settembre 2000, n. 12422).

Sotto altro profilo, il primo giudice non ha affatto acriticamente recepito le indicazioni probatorie contenute negli elaborati resi dai consulenti tecnici d’ufficio nominati sia in sede di giudizio civile che dal pubblico ministero in sede penale.

...

Dette risultanze sono state accuratamente vagliate dal primo giudice e semmai, come risulta anche dalla documentazione fotografica versata in atti, esse sono state soltanto apoditticamente contestate dall’appellante, che ha espresso “perplessità” sulle modalità di calcolo dell’altezza e sulla nozione di “interrato”.

...

Rileva in proposito il Collegio che per condivisa giurisprudenza di questo Consiglio di Stato

“in tema di distanze legali tra edifici o dal confine, mentre non sono a tal fine computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, di finitura od accessoria di limitata entità, come le mensole, le lesene, i cornicioni, le grondaie e simili, invece, rientrano nel concetto civilistico di costruzioni, le parti dell'edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati (c.d. aggettanti) che, se pur non corrispondono a volumi abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare la consistenza del fabbricato. Lo stesso può dirsi per le opere di contenimento, quali indubbiamente si configurano quelle di cui al caso di specie che, comunque progettate in relazione alla situazione dei luoghi ed alla soluzione esteticamente ritenuta più confacente dal committente, hanno una struttura che deve essere idonea per consistenza e modalità costruttive ad assolvere alla funzione di contenimento ed una funzione, che non è quella di delimitare, proteggere ed eventualmente abbellire la proprietà, ma essenzialmente di sostenere il terreno al fine di evitare movimenti franosi dello stesso. Opere tali da dovere essere riguardate, sotto il profilo edilizio, come opere dotate di una propria specificità ed autonomia, in una accezione che comprende tutte le caratteristiche proprie dei fabbricati, donde l'obbligo di rispetto di tutti gli indici costruttivi prescritti dallo strumento urbanistico e, in particolare, delle distanze dal confine privato.”(Consiglio Stato , sez. IV, 30 giugno 2005 , n. 3539)

In modo pressoché simmetrico, la giurisprudenza civile di legittimità ha ancora di recente condivisibilmente affermato che “ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze legali di origine codicistica o prescritte dagli strumenti urbanistici in funzione integrativa della disciplina privatistica, la nozione di costruzione non si identifica con quella di edificio ma si estende a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell'opera.”(Cassazione civile , sez. II, 17 giugno 2011 , n. 13389).

La giurisprudenza civile di merito, altrettanto condivisibilmente, ad avviso del Collegio ha poi fatto presente che ai fini del rispetto delle distanze fra costruzioni, non rileva il materiale utilizzato per la fabbrica, richiedendosi soltanto una durevolezza dell'opera comunemente riconoscibile anche alle opere in legno o ferro od altri materiali leggeri, purché infissi al suolo non transitoriamente.

Ne consegue la permanente vigenza dell’insegnamento della Corte di legittimità secondo il quale

“costituisce costruzione, agli effetti della disciplina del c.c. sulle distanze legali, ogni manufatto che, per struttura e destinazione, ha carattere di stabilità e permanenza . (Nella specie il manufatto, con finestra, era coperto da tettoia formata da travi con soprastanti lamiere, ed era destinato a fienile, magazzino e pollaio). “(Cassazione civile, sez. II, 24 maggio 1997, n. 4639).

Per completezza – tenuto conto dei profili sollevati dall’appellato nella propria memoria di replica- si evidenzia che analoga nozione estensiva del concetto di “fabbricato” è stata dettata dalla Corte di Cassazione ai fini dell'art. 907 c.c., diretto a preservare l'esercizio delle vedute da ogni eventuale ostacolo con carattere di stabilità, “in quanto la nozione di costruzione è comprensiva non solo dei manufatti in calce e mattoni, ma di qualsiasi opera che, indipendentemente dalla forma e dal materiale con cui è stata realizzata, determini un ostacolo del genere. (Nella specie, il giudice del merito aveva ritenuto che costituisse costruzione nel senso anzidetto una veranda che ostacolava la veduta dal balcone e dalla finestra sovrastanti, anche se ottenuta mediante la posa in opera, su correntini infissi nel muro, di lastre di fibrocemento facilmente asportabili, in quanto bullonate a tali correntini. La C.S., nell'enunciare il precisato principio di diritto, ha confermato tale decisione).” (Cassazione civile, sez. II, 21 ottobre 1980, n. 5652).

2.3. Già alla stregua della sistematica esposizione che precede, appare evidente che appare destituito di fondamento il primo caposaldo dell’impianto dell’appello volto a contestare la nozione di “costruzione” (rectius “veranda”) assunta dal primo giudice, rilevante in punto di omesso rispetto delle distanze legali.

Ma anche il profilo dell’appello relativo alla sottostante autorimessa ed alla contestata creazione di un vano mediante la copertura del garage riceve smentita: è ben vero che l’area è rimasta aperta, ma è pur vero che tramite l’innalzamento della copertura dello stesso si è sostanzialmente ricavato un nuovo vano e comunque che non ricorre il concetto di “autorimessa totalmente interrata”.

Sul punto giova rammentare che per costante giurisprudenza di questa Sezione

“al fine di individuare se un manufatto sia o meno interrato, va fatto riferimento al livello naturale del terreno, con la conseguenza che la sporgenza di un manufatto dal suolo va riscontrata con riferimento al piano di campagna, cioè al livello naturale del terreno, e non al livello eventualmente inferiore cui si trovi un finitimo edificio realizzato con abbassamento di quel piano.”

(Consiglio Stato, sez. V, 06 dicembre 2010, n. 8547 ed in passato Consiglio Stato, sez. V, 21 ottobre 1991, n. 1231 laddove si è affermato che soltanto “i locali costruiti al di sotto dell'originario piano di campagna non sono infatti computabili ai fini dell'applicazione degli standards urbanistici e non concernono al computo della volumetria.”).

Nel caso di specie, nella incontestabile emergenza processuale secondo cui il piano di calpestio del terrazzo-veranda si trova ad una quota di 85 cm. rispetto alla strada senza uscita, ancora da denominare, che si dirama da Via Brennero, e di 1,52 m. rispetto al terreno di proprietà dell’appellato (costruzione resa possibile, sistemando l’area esterna al fabbricato principale con un terrapieno artificiale) si rende applicabile l’orientamento espresso a più riprese da questo Consiglio di Stato secondo cui “ai sensi dell'art. 9, l. 24 marzo 1989 n. 122, la realizzazione di autorimesse e parcheggi è soggetta alla disciplina urbanistica dettata per le ordinarie nuove costruzioni fuori terra, se non effettuata totalmente al di sotto del piano di campagna naturale.” (Consiglio Stato, sez. IV, 27 novembre 2010, n. 8260).

Ne consegue la esattezza dell’affermazione del primo giudice (non specificamente contestata nell’appello, peraltro) secondo cui “le autorimesse, edificate fuori terra, poiché vanno qualificate come nuove costruzioni, sono soggette al pagamento degli oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione, in quanto il citato art. 9, comma 2, L. n. 122/1989, nel rinviare al precedente comma 1, si riferisce soltanto alle opere edilizie, destinate a parcheggi, eseguite nei locali siti al piano terra o nel sottosuolo del fabbricato o nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato”.

 

Consiglio di Stato, Sez. IV, 18 maggio 2012

Decadenza del titolo abilitativo edilizio - inizio lavori

La sentenza ribadisce l'orientamento secondo il quale:

6.2.1. Per quanto attiene alla questione di fondo che contraddistingue la causa, ossia se la decadenza del titolo edilizio consegue dal mero decorso del tempo correlato all’inattività dell’interessato o se necessita a tal fine un esplicito provvedimento amministrativo, costitutivo o dichiarativo, nella sentenza impugnata si legge che “l’orientamento giurisprudenziale sulla necessità di un espresso provvedimento di decadenza non è costante. … Infatti una parte della giurisprudenza ritiene che la decadenza della concessione edilizia per mancato inizio ed ultimazione dei lavori non sia automatica e, pertanto, tale decadenza debba essere necessariamente dichiarata con apposito provvedimento, nei cui riguardi il privato non vanta che una posizione giuridica di interesse legittimo, sicché non è configurabile nella specie un giudizio d’accertamento ( T.A.R. Abruzzo Pescara, 28 giugno 2002, n. 595) e che, pertanto, affinché la concessione edilizia perda, per decadenza , la propria efficacia occorre un atto formale dell’Amministrazione che renda operanti gli effetti della decadenza accertata ( Consiglio Stato, sez. V, 26 giugno 2000, n. 3612)”, con la conseguenza – quindi – che “la decadenza avrebbe, pertanto, dovuto formare oggetto di un apposito provvedimento sindacale, che ne avesse accertato i presupposti rendendone operanti gli effetti, come richiesto per tutti i casi di decadenza di concessioni edilizie (cfr., da ultimo, Cons. Stato, Sez. V, 15.6.1998, n. 834), considerato che la perdita di efficacia della concessione è subordinata all’esplicazione di una potestà provvedimentale” (cfr. pag. 11 e ss. della sentenza impugnata).

Ad avviso del Collegio, a ragione il giudice di primo grado ha respinto la tesi testè riassunta, “in aderenza all’orientamento che appare prevalente nella materia da ultimo” e sulla scorta del diretto “riferimento … alla lettera della legge, la quale fa dipendere la decadenza, non da un atto amministrativo, costitutivo o dichiarativo, ma dal semplice fatto dell’inutile decorso del tempo” (cfr. ibidem).

Nell’art. 4 della L. 10 del 1977, vigente all’epoca dei fatti di causa, si disponeva infatti al terzo comma che “nell’atto di concessione sono indicati i termini di inizio e di ultimazione dei lavori”, nel mentre nel susseguente sua quarto comma si disponeva che “il termine per l’inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno”, che “il termine di ultimazione, entro il quale l’opera deve essere abitabile o agibile, non può essere superiore a tre anni”, e si disciplinavano quindi le ipotesi di proroga della concessione stessa.

Nel quinto comma si disponeva – altresì – che “qualora i lavori non siano ultimati nel termine stabilito, il concessionario deve presentare istanza diretta ad ottenere una nuova concessione; in tal caso la nuova concessione concerne la parte non ultimata”, nel mentre nel sesto comma era stata introdotta una norma di chiusura del “sistema”, in forza della quale la concessione era “irrevocabile, fatti salvi i casi di decadenza ai sensi della presente legge”.e le sanzioni previste dall'articolo 15 della stessa.

Risulta ben evidente, pertanto, che in tale contesto non era ravvisabile la presenza di una norma che imponesse l’emanazione di un provvedimento al riguardo, posto che la legge stessa disciplinava in via diretta la durata della concessione e, in via tassativa, le ipotesi per ottenerne la proroga: con la conseguenza, quindi, che la decadenza della concessione edilizia per mancata osservanza del termine di inizio dei lavori operava di diritto e che il provvedimento pronunciante la decadenza, ove adottato, aveva carattere meramente dichiarativo di un effetto verificatosi “ex se” , in via diretta,con l’infruttuoso decorso del termine prefissato.

Va opportunamente denotato che tale assetto delle cose permane anche nell’attuale disciplina contenuta nell’art. 15, comma 2, del T.U. approvato con D.P.R. 6 giugno 2001 n. 380, laddove si dispone, in tema di rilascio del permesso di costruire ma in via ancor più puntuale, che “il termine per l’inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione, entro il quale l’opera deve essere completata non può superare i tre anni dall'inizio dei lavori. Entrambi i termini possono essere prorogati, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso. Decorsi tali termini il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza venga richiesta una proroga. La proroga può essere accordata, con provvedimento motivato, esclusivamente in considerazione della mole dell’opera da realizzare o delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive..”.

L’adesione all’orientamento maggioritario della giurisprudenza trova conforto nella notazione – puntualmente svolta dal giudice di primo grado – secondo la quale, diversamente opinando, si farebbe dipendere la decadenza non solo da un comportamento dei titolari della concessione ma anche della Pubblica Amministrazione che potrebbe – quindi – in taluni casi adottare un provvedimento espresso e in altri casi no, con non evanescenti ipotesi di disparità di trattamento tra situazioni che nella sostanza si presentano tuttavia identiche sul punto di fondo che qui segnatamente interessa.

Tale constatazione toglie, pertanto, per se stessa pregio alle surriportate obiezioni dell’appellante secondo le quali risulterebbe problematico configurare la sopravvenuta caducazione dei permessi di costruire in assenza di un atto espresso in tal senso, ancorchè avente natura dichiarativa, ovvero si ingenererebbero incertezze nei rapporti tra privati e, ancora, conseguenze inaccettabili.

Semmai, proprio il diretto riferimento dei termini e delle conseguenze per la loro violazione alla previsione di legge elimina in radice – come detto innanzi – ogni ipotesi di disparità di trattamento, e la necessità dell’applicazione del regime sanzionatorio per i lavori eseguiti dopo il decorso del termine stabilito dal titolo edilizio è, a sua volta, conseguenza necessitata - e non già “inaccettabile” - della violazione da parte dell’interessato di puntuali obblighi a lui commessi dalla stessa legge.

Deve dunque concludersi sul punto che la pronuncia di decadenza del titolo edilizio è per certo espressione di un potere strettamente vincolato; ha una natura ricognitiva, perché accerta il venir meno degli effetti del titolo edilizio in conseguenza dell’inerzia del titolare, ovvero della sopravvenienza di una nuova e diversa strumentazione edilizia, e assume pertanto decorrenza ex tunc; inoltre il termine di durata del titolo edilizio non può mai intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un provvedimento da parte della stessa Amministrazione che ha rilasciato il titolo edilizio e che accerti l’impossibilità del rispetto del termine ab origine fissato, e solamente nei casi in cui possa ritenersi sopravvenuto un factum principis, ovvero l’insorgenza di una causa di forza maggiore (cfr. al riguardo, ex plurimis, Cons. Stato, sez. IV, 10 agosto 2007, n. 4423 e 18 giugno 2008 n. 3030).

6.2.2. Circa l’allegazione dell’attuale appellante secondo la quale non sarebbe stata nella specie ottemperata dall’Amministrazione Comunale l’ordinanza istruttoria emanata dal giudice di primo grado al fine di acquisire agli atti di causa, tra l’altro, copia del verbale del sopralluogo asseritamente effettuato dall’Ufficio Tecnico Comunale in data 27 febbraio 1998 e che pertanto non risulterebbe comprovato nella sua materialità l’assunto del Comune medesimo secondo il quale i lavori non sarebbero nella specie regolarmente iniziati, il Collegio – per parte propria – non può non evidenziare che, secondo il generale principio di distribuzione dell’onere della prova di cui al combinato disposto dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 115 cod. proc. civ. – ora espressamente recepito dall’art. 64, comma 1, cod. proc. amm. ma reputato immanente nell’ordinamento processuale amministrativo, se non altro per quanto attiene alle ipotesi che come per il caso di specie pertengono alla giurisdizione esclusiva, anche in epoca antecedente all’entrata in vigore del nuovo codice di rito (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 7 ottobre 2009 n. 6118) – competeva all’attuale appellante dedurre che le opere da lei asseritamente realizzate prima della scadenza del termine annuale fissato per l’avvio dei lavori erano comunque idonee a dimostrare una sua seria e concreta volontà di utilizzare il titolo edilizio a lei rilasciato.

Al riguardo, risulta corretta la notazione di fondo del primo giudice secondo la quale tra i “modesti sbancamenti di terreno oramai ricoperti di acqua e vegetazione” testualmente riferiti dall’Amministrazione Comunale in esito al sopralluogo da essa effettuato e i lavori affermati come già eseguiti dalla Jaconelli in sede di richiesta di riesame del primo diniego di proroga a lei opposto ( “picchettatura del terreno interessato dalla costruzione, livellamento del medesimo terreno al livello delle fondazioni, creazione degli scavi per il getto dei plinti di fondazione di entrambi gli assentiti edifici, realizzazione della strada di accesso”) non esiste, in realtà, un reale contrasto.

Al di là del diverso impianto descrittivo delle due rappresentazioni di fatto, ben si evince infatti che secondo entrambe le tesi poste a raffronto i lavori in questione si sono fermati al livello dello sbancamento dei terreni e della loro preparazione all’edificazione, senza che quest’ultima possa effettivamente reputarsi come in concreto iniziata.

Come è ben noto, ai fini della sussistenza dei presupposti per la decadenza dalla concessione edilizia, l’effettivo inizio dei lavori deve essere valutato non in via generale ed astratta, ma con specifico e puntuale riferimento all’entità ed alle dimensioni dell’intervento edilizio così come programmato e autorizzato, e ciò al ben evidente scopo di evitare che il termine per l’avvio dell’edificazione possa essere eluso con ricorso a lavori fittizi e simbolici, e quindi non oggettivamente significativi di un effettivo intendimento del titolare della concessione stessa di procedere alla costruzione (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 16 novembre 1998 n. 1615).

Sempre in tal senso, l’inizio dei lavori idoneo ad impedire la decadenza della concessione edilizia può ritenersi sussistente quando le opere intraprese siano tali da evidenziare l’effettiva volontà da di realizzare il manufatto l’opera, non essendo a ciò sufficiente il semplice sbancamento del terreno e la predisposizione degli strumenti e materiali da costruzione (così Cons. Stato, Sez. V, 22 novembre 1993 n. 1165); ovvero, detto altrimenti, l’inizio dei lavori non è configurabile per effetto della sola esecuzione dei lavori di scavo di sbancamento e senza che sia manifestamente messa a punto l’organizzazione del cantiere e sussistendo altri indizi che dimostrino il reale proposito di proseguire i lavori sino alla loro ultimazione (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 3 ottobre 2000 n. 5242), con la conseguenza che la declaratoria di decadenza della licenza edilizia per mancato inizio dei lavori entro il termine fissato è illegittima solo se sono stati perlomeno eseguiti “lo scavo ed il riempimento in conglomerato cementizio delle fondazioni perimetrali fino alla quota del piano di campagna entro il termine di legge” ( Cons. Stato, Sez. V, 15 ottobre 1992 n. 1006) o se lo sbancamento realizzato si estende un’area di vaste dimensioni (Cons.Stato, Sez. V, 13 maggio 1996 n. 535): circostanze, queste ultime, non comprovate nella specie dalla Jaconelli.

 

Consiglio di Stato, Sez. III, 9 maggio 2012

Annullamento del permesso di costruire: condizioni

La sentenza ribadisce l'orientamento secondo il quale:

Nella parte predetta il medesimo appello deve ritenersi fondato per l’assorbente censura svolta nell’ambito dei motivi quarto e quinto, con la quale si contesta la sentenza appellata per la reiezione dei motivi aggiunti primo e secondo, laddove si lamentava carenza di istruttoria, nonché carenza di motivazione specie in ordine alla valutazione dell’interesse pubblico all’annullamento del permesso di costruire sia in quanto regolarmente rilasciato, sia in relazione alla funzione dell’impianto.

In effetti, diversamente da quanto ritenuto dal TAR, il solo fatto della “diversa realizzazione della copertura, anziché a quattro a due falde” e “altezza media del sottotetto da 2,00 a 2,15 mt e con modifica della forma da padiglione a tetto a capanna”, in cui consiste l’abuso descritto nel provvedimento di ritiro, non spiega compiutamente le ragioni per le quali l’annullamento del permesso di costruire dell’impianto radioelettrico “è consequenziale”.

Invero, non risulta indicato nel provvedimento lo svolgimento di alcuna istruttoria volta a verificare se effettivamente non fosse materialmente possibile la sopravvivenza dell’antenna alla riduzione a conformità della copertura.

Ma, pure a prescindere da ciò, va ricordato che, com’è noto, anche l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio di un titolo edilizio deve rispondere ai requisiti di legittimità codificati nell’art. 21 nonies della legge 7 agosto 1990 n. 241 ss.mm.ii., consistenti nell’illegittimità originaria del titolo e nell’interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione diverso dal mero ripristino della legalità, comparato con i contrapposti interessi dei privati.

Ora, se è vero che in materia l’interesse pubblico va ravvisato in quello della collettività al rispetto della disciplina urbanistica, nel particolare caso di specie, in cui – come si è visto – manca il presupposto dell’illegittimità originaria del permesso di costruire annullato, neppure un cenno è stato fatto sia alla sussistenza di un siffatto interesse, sia alla sua concretezza ed attualità, sia, tanto meno, all’interesse di H3G al mantenimento dell’antenna, già realizzata e destinata alla copertura della rete nazionale di telefonia mobile; elementi, questi, che proprio per la carenza del medesimo presupposto a maggior ragione avrebbero dovuto essere valutati.

 

Consiglio di Stato, Sez. IV, 10 maggio 2012

Concetto di demolizione parziale

La sentenza ribadisce un proprio orientamento secondo il quale:

Ad ogni buon conto, occorre ricordare che questo stesso Consiglio di Stato (sez. IV, 19 febbraio 2007 n. 867), ha già affermato che “la demolizione parziale si ha quando continua ad esistere una parte del manufatto, avente una propria autonomia, tale da far ritenere sussistente un edificio in senso tecnico. E non si può considerare esistente un edificio in senso tecnico, quando siano conservate soltanto le fondamenta e una parte del muro perimetrale, senza cioè la copertura ed i muri perimetrali”. Il che porta ad escludere, anche in virtù di quanto concretamente effettuato, che nel caso di specie ricorra un’ipotesi di demolizione parziale.

 

Consiglio di Stato, Sez. VI, 8 maggio 2012

Procedimento abuso in area di demanio marittimo - Cod. Nav

La sentenza dà evidenza che:

Nel verbale di accertamento dello stato dei luoghi in data 26.8.2004, infatti, risulta attestato dagli agenti di polizia giudiziaria (P.G.), in servizio presso la locale Capitaneria di Porto come, da una proprietà vicina a quella dell’attuale appellante – non interpellato in quanto assente – partisse una rampa di scale verso la sottostante battigia e come tale rampa si congiungesse ad un’altra “che risultava versare in stato di parziale abbandono in quanto coperta da vegetazione, che partiva da una limitrofa proprietà privata (identificata in seguito come la particella n. 323 del foglio n. 3 del Comune di Portoferraio, intestata al signor Del Re Andrea)”. In tale situazione – ed in assenza di qualsiasi notizia, in merito agli accertamenti rimessi all’Autorità Giudiziaria penale, con notizia di reato n. 40/2004 in data 8.10.2004 – non possono ritenersi adeguatamente accertati e valutati i presupposti applicativi dell’art. 54 del codice della navigazione, che prevede ordine di rimessa in pristino a carico del “contravventore”, ovvero di colui che abbia abusivamente occupato zone del demanio marittimo o eseguito sul medesimo innovazioni non autorizzate. In tema di demanio, d’altra parte, il reato di realizzazione abusiva di innovazioni, di cui agli articoli 54 e 1161 cod. nav., ha natura di reato istantaneo, in quanto la consumazione cessa con l’ultimazione delle opere così qualificate, avendo, invece, carattere permanente l’occupazione arbitraria dell’area interessata dalle opere stesse (Cass., sez. III, 3.5.2006, n. 20766). Nella fattispecie, per quanto risulta dagli atti, il signor Del Re non ha ampliato il terreno di proprietà inglobando la scala di cui trattasi, riguardando la contestazione la mera contiguità di tale scala alla proprietà del medesimo, con conseguente applicabilità del principio secondo cui deve in tal caso essere individuato l’effettivo responsabile dell’abuso, poiché l’ordine di rimessa in pristino può, come già specificato, essere posto a carico solo di chi abbia realizzato le opere in contestazione ovvero occupi abusivamente l’area interessata, non anche di chi si limiti all’utilizzo delle opere stesse (utilizzo peraltro, come rappresentato nella situazione in esame, non esclusivo e forse nemmeno attuale, visto lo stato di conservazione della scalinata, come descritto dagli agenti verificatori).

 

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 13 aprile 2012

Natura del contributo di costruzione

La sentenza ribadisce:

1.6. Per completezza, giova osservare come il motivo in questione si presenti, comunque, infondato nel merito, laddove con esso l’esponente adombra una sorta di corrispettività fra l’importo del contributo e i costi delle opere di urbanizzazione.

Come più volte affermato dalla giurisprudenza (cfr. ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI - 25/8/2009 n. 5059; C.G.A., Sez. Giur. - 19 dicembre 2008, n. 1131; Cons. Stato, Sez. V - 21 aprile 2006 n. 2258; nonché Cons. Stato, Sez. V, 6 maggio 1997, n. 462), sia nella precedente che nell'attuale normativa (articoli 3, 5, 6 della L.n. 10/77, 16 del d.P.R. n. 380/2001) alle nuove edificazioni e agli altri interventi comunque soggetti a titolo abilitativo, corrisponde il pagamento di un contributo commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione, che presenta carattere generale e prescinde dall’esistenza o meno delle singole opere di urbanizzazione.

Esso, in sostanza, assume la natura di prestazione patrimoniale imposta e viene determinato senza tener conto né dell’utilità specifica che riceve il beneficiario del titolo edilizio e, neppure, delle spese effettivamente necessarie per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione relative al titolo assentito (cfr. da ultimo T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. II, 02 marzo 2012, n. 355; T.A.R. Puglia, Bari, sez. III, 10 febbraio 2011, n. 243; T.A.R. Abruzzo, Pescara, 18 ottobre 2010, n. 1142; T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 14 novembre 2007, n. 11213).

La concreta determinazione degli oneri dovuti per il conseguimento del titolo edilizio costituisce, dunque, il risultato di un calcolo materiale, la cui misura è direttamente collegata all’applicazione dei parametri pre-stabiliti, per cui deve escludersi, stante la natura vincolata dell’attività espletata, che l’atto di specificazione del quantum debeatur debba essere motivato.

Da ciò consegue l’infondatezza delle censure di eccesso di potere rivolte, sempre col motivo in esame, avverso la determinazione del 25.08.2009.

 

TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 12 aprile 2012

DIA e SCIA - natura giuridica

La sentenza ribadisce:

Come noto, il regime della tutela giurisdizionale del terzo a fronte della presentazione di una denuncia/dichiarazione di inizio attività (DIA) o di una segnalazione certificata di inizio attività (SCIA), reputate dal terzo contra legem, è oggi contenuto nell’art. 19 della legge 241/1990, come modificato dal decreto legge 138/2011, convertito con legge 148/2011.

Il comma 6-ter dell’art. 19 citato, esclude in primo luogo che la DIA e la SCIA costituiscano provvedimenti amministrativi taciti direttamente impugnabili: si tratta di una scelta legislativa conforme alla conclusione alla quale era giunta – seppure dopo un serrato dibattito – la stessa giurisprudenza amministrativa, con la sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 15/2011, di poco anteriore alla riforma legislativa del decreto legge 138/2011.

Di conseguenza, nello schema normativo del citato comma 6-ter, la presentazione di una DIA o di una SCIA, non dà luogo ad alcun procedimento amministrativo, per cui il decorso del termine di legge di sessanta o trenta giorni per l’adozione di provvedimenti inibitori o repressivi da parte della Pubblica Amministrazione non configura alcuna conclusione di procedimento amministrativo né alcuna adozione di un provvedimento tacito o implicito.

L’art. 19, comma 6-ter, consente al terzo che si reputa leso dalla presentazione della DIA/SCIA una sola modalità di tutela (il comma 6-ter, secondo periodo, contiene a tale proposito la parola <<esclusivamente>>, introdotta in sede di conversione del decreto legge), vale a dire la sollecitazione all’esercizio delle verifiche spettanti all’Amministrazione e, in caso di inerzia di quest’ultima, la proposizione dell’azione prevista dall’art. 31 del D.Lgs. 104/2010, cioé l’azione contro il silenzio della Pubblica Amministrazione.

Si tratta di un’azione contro il silenzio della P.A. tutto sommato sui generis, visto che l’esperimento della stessa è consentito anche se la presentazione della DIA/SCIA non ha dato avvio ad alcun procedimento amministrativo (a tale proposito, si comprende perché il D.Lgs. 195/2011, costituente il primo decreto correttivo al codice del processo amministrativo, abbia modificato il primo comma dell’art. 31 del codice stesso, permettendo l’azione contro il silenzio non solo dal momento della conclusione del procedimento, ma anche <<negli altri casi previsti dalla legge>>, fra cui spicca senza dubbio quello dell’art. 19 comma 6-ter succitato).

Il silenzio della P.A., che consente l’azione ex art. 31 del codice del processo, presuppone, ai sensi del comma 6-ter, la “sollecitazione” del terzo all’Amministrazione, affinché quest’ultima eserciti i propri poteri di verifica.

Orbene, ritiene il Collegio che tale sollecitazione, pur non dovendo contenere formule sacramentali, debba però possedere una serie di minimi requisiti per così dire di “serietà”, che la rendano idonea a porre in capo alla P.A. l’obbligo di esercitare i propri poteri di verifica e correlativamente a configurare, in caso di inerzia della P.A. stessa, un silenzio inadempimento, giuridicamente rilevante, censurabile davanti al giudice amministrativo con l’azione di cui all’art. 31 del D.Lgs. 104/2010.

Fra questi requisiti deve senza dubbio annoverarsi la forma scritta, con l’indicazione – seppure di massima – della lamentata illegittimità dell’intervento edilizio e con la richiesta di esercizio del potere/dovere di verifica e di eventuale repressione.

In altri termini, la sollecitazione all’esercizio del potere di cui è causa non può confondersi con la generica denuncia di eventuali abusi edilizi, che può ovviamente essere effettuata da qualsivoglia cittadino anche in forma orale, ma che non appare però idonea a fondare il silenzio dell’Amministrazione di cui all’art. 31 del D.Lgs. 104/2010.

A diversa conclusione non induce la circostanza che, nel vigente ordinamento processuale amministrativo, a differenza del pregresso sistema, l’azione contro il silenzio della P.A. può essere promossa anche senza previa diffida all’Amministrazione (cfr. art. 31 comma 1°, del D.Lgs. 104/2010).

Infatti, la soluzione legislativa di cui sopra è giustificata dal fatto che la scadenza infruttuosa del termine di conclusione del procedimento amministrativo (ex art. 2, comma 1°, della legge 241/1990), equivale comunque alla formazione del silenzio inadempimento della P.A., mentre nel caso di presentazione di DIA o di SCIA, come già sopra ricordato, non viene avviato alcun procedimento amministrativo, sicché soltanto attraverso l’idonea sollecitazione di cui all’art. 19 comma 6-ter citato è possibile la formazione del silenzio inadempimento dell’Amministrazione.

 

Consiglio di Stato,Sez. V, 20 aprile 2012

Sul concetto di domanda (dolosamente) infedele

La sentenza consente di estrapolare il concetto di domanda dolosamente infedele anche se riferita ad una pratica di condono edilizio:

Da quanto detto emerge la insussistenza della domanda “dolosamente infedele”, a parte che, secondo giurisprudenza costante, è domanda dolosamente infedele e costituisce motivo di diniego del condono edilizio, la domanda che presenti inesattezze ed omissioni tali da configurare un’opera completamente diversa per dimensione, natura e modalità dell’abuso dall’esistente, sempre che detta difformità risulti preordinata a trarre in errore il Comune su elementi essenziali dell’abuso quali la data della sua commissione e la qualificazione giuridica dell’illecito. Situazione questa che non ricorre, comunque, nel caso in esame.

 

Consiglio di Stato, Sez. IV, 18 aprile 2012

Sui doveri della P.A. in materia di vigilanza ed azioni repressive

Il caso riguarda l'impugnativa del silenzio serbato dalla P.A. ad una domanda a lei diretta circa l'esecuzione della demolizione quale ultimazione del procedimento sanzionatorio con la quale la stessa aveva emanato l'ordinanza di demolizione. Il Comune si è giustificato sostenendo che la parte interessata aveva presentato un progetto di ripristino, talchè la sospensione del procedimento. La sentenza evidenzia:

La posizione del TAR adito

Ed invero, presupposto sostanziale del silenzio è la sussistenza di un obbligo di provvedere, ossia di adottare un provvedimento espresso a fronte dell'istanza del privato, in ossequio al precetto dell'art. 2, comma 1, della l. n. 241/1990 (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 20 luglio 2005, n. 3909; sez. V, 5 ottobre 2005, n. 5325; T.A.R. Lazio, Roma, sez. I quater, 1° aprile 2005, n. 2398).

Non vi è dubbio che a fronte dell’istanza del privato volta ad ottenere un comportamento materiale da parte della amministrazione, quale quello di eseguire concretamente un ordine demolitorio relativamente ad opere la cui abusività è stata in precedenza acclarata, l'inerzia serbata dall'amministrazione è certamente da qualificarsi illegittima”.

La decisione del Consiglio di Stato

Al riguardo il Collegio deve muovere dall’osservazione che al dovere di concludere il procedimento, previsto dall’art.2, c.1,della legge n.241/1990, si accompagna l’art. 21-quater della legge medesima, il quale dispone che “I provvedimenti amministrativi efficaci sono eseguiti immediatamente….”, sicchè l’applicazione congiunta delle due disposizioni configura, a concreta conferma del noto principio di “esecutorietà”, un potere-dovere dell’amministrazione di portare ad effettiva attuazione i propri provvedimenti emessi al termine del procedimento.

Ne deriva che il comportamento che l’Amministrazione deve tenere a fronte di un’istanza tesa all’esercizio dei suoi poteri repressivi in materia edilizia, non solo non può essere il silenzio ma, sussistendone i presupposti, deve consistere nella esecuzione effettiva del provvedimento repressivo emanato.

Ciò premesso, a fronte della predetta normativa, e considerata la valenza della decisione impugnata, deve ritenersi che la presentazione di un progetto di ripristino dei luoghi (circostanza ripetutamente sottolineata sia dall’appellante che dal Comune) non possa presentare alcuna valenza risolutiva nel senso di precludere l’esecuzione dell’ordinanza di demolizione adottata, ciò a differenza di quanto accade per l’istanza di sanatoria dell’abuso edilizio, che impone normalmente di soprassedere alle demolizione sino ai necessari provvedimenti sull’istanza stessa (accertamento di conformità ex artr. 13 l.n.47/1985 e 36 DPR n.380/2001).

Altri rilievi permettono poi di confermare l’erroneità dell’argomento svolto dall’appellante che nega l’inerzia del Comune di Gaeta facendo leva sulla presentazione del menzionato progetto; innanzitutto si tratta di un iniziativa avviata dal privato e non dal Comune cui invece normalmente spetta l’esecuzione della demolizione e che oggettivamente ad essa non ha provveduto, in esercizio dei poteri repressivi assegnatigli dalla legge. Inoltre la presentazione di un progetto di ripristino dello stato dei luoghi costituisce una mera proposta e non sostituisce “ex se” il ripristino stesso, costituendo semmai ammissione e conferma della necessità giuridica di rimuovere quanto abusivamente realizzato. E’ poi un fatto oggettivo che l’ordinanza di demolizione non è stata eseguita (ancor oggi per l’opera di cui sopra), tant’è che si è resa necessaria da parte dell’interessato la presentazione di uno specifico ricorso avverso il silenzio sulla domanda che quella esecuzione inequivocabilmente richiedeva. La censura in esame, è dunque contraddittoria poichè in definitiva, nell’opporsi alla sentenza che ha sancito il dovere del Comune di eseguire la demolizione, utilizza la presentazione un progetto di “riqualificazione” che, oltremodo prolungandosi attraverso persino una “conferenza dei servizi”, finisce per assumere di fatto una valenza sostanzialmente dilatoria dell’obbligo di demolire. Ciò però contrasta, oltre che con l’obbligo di demolizione, anche col preciso principio (che nulla vieta di applicare anche alla cura degli interessi pubblici) recato dall’art.1, comma 1, della legge n. 241/1990, il quale vieta l’aggravamento dell’iter amministrativo con atti non necessari od inutili ai fini del compimento della procedura.

 

TAR Lombardia, BS, Sez. I, 10 aprile 2012

Natura del parere obbligatorio e vincolante della Soprintendenza

La sentenza evidenzia che:

1. In primo luogo va chiarito che il parere della Soprintendenza per il quale è causa costituisce effettivamente atto impugnabile, anche in via autonoma, in deroga alla regola ben nota per cui i pareri sono atti endoprocedimentali, non forniti di autonoma potenzialità lesiva. Il parere della Soprintendenza relativo alla autorizzazione paesaggistica, infatti, ha natura particolare: essendo obbligatorio e vincolante determina in tutto il contenuto del successivo diniego di autorizzazione, e quindi assume di per sé capacità di ledere la sfera giuridica del destinatario: così in termini la recente TAR Puglia, Lecce, sez. I, 3 dicembre 2010 n°2784.

2. Sempre per chiarezza, è utile poi precisare che il parere in questione si inserisce nel complesso procedimento di cui al citato art. 146 del d. lgs. 42/2004, che esordisce al comma 1 con un divieto di principio, per cui “I proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di immobili ed aree di interesse paesaggistico… non possono distruggerli, né introdurvi modificazioni che rechino pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione”. Lo stesso articolo prosegue poi al comma 2 e stabilisce che per gli interventi ammessi gli interessati non possono procedere senza la necessaria autorizzazione paesaggistica, la quale, a termini del successivo comma 4, “costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio”.

3. Sempre l’art. 146 in esame disegna appunto il procedimento per il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, che ai sensi del comma 5 è di competenza regionale, salva delega da parte di essa agli enti locali minori –com’è noto in Lombardia esercitata a favore dei Comuni- e si rende “dopo avere acquisito il parere vincolante del soprintendente in relazione agli interventi da eseguirsi su immobili ed aree sottoposti a tutela dalla legge o in base alla legge”.

4. In ordine a tale parere, dispone poi lo stesso art. 146 al comma 8, stabilendo che “Il soprintendente rende il parere di cui al comma 5, limitatamente alla compatibilità paesaggistica del progettato intervento nel suo complesso ed alla conformità dello stesso alle disposizioni contenute nel piano paesaggistico ovvero alla specifica disciplina di cui all'articolo 140, comma 2”, che è quella di cui alla dichiarazione di interesse pubblico del bene interessato, ove essa esista.

5. La giurisprudenza della Sezione, in particolare nella sentenza 8 marzo 2010 n°1146 correttamente citata dal ricorrente, ha poi avuto modo di precisare i limiti del potere che così si esercita, ed ha stabilito che esso non può eccedere nella tutela, trasformando “il contenuto conservativo del vincolo in un divieto generalizzato di nuova edificazione”. In altre parole, il Soprintendente il quale si esprima su una pratica edilizia deve dare come accettato che il terreno interessato sia edificabile, così come è pacificamente nel caso di specie, dato che la relativa questione è già stata risolta in altra sede, là dove si è trattato di stabilire il regime del terreno stesso. Secondo logica, pertanto, potrà esprimersi nel senso di suggerire modifiche alle soluzioni proposte, od anche soluzioni alternative ragionevolmente fattibili; non potrà invece, né in termini espressi né per implicito, imporre la cd. opzione zero, ovvero la non realizzazione dell’intervento e quindi il sostanziale azzeramento della potenzialità edificatoria del lotto.

 

TAR Lombardia, BS, Sez. I, 10 aprile 2012

Rapporto tra SCIA e Permesso di costruire - nozione di piano di campagna

La sentenza evidenzia che:

Le SCIA vengono in rilievo in quanto con esse sono state introdotte alcune varianti in corso d’opera a tale originario titolo edilizio. Da ciò discende che correttamente è stata richiesto l’annullamento dell’atto autorizzatorio (il permesso di costruire). In ogni caso va rilevato che, nella fattispecie, le SCIA non costituiscono una autonoma fonte di legittimazione, essendo destinate a sopravvivere solo in quanto sussista il titolo originario. Da ciò discende che, in caso di annullamento del titolo esse sono destinate ad essere travolte anche a prescindere dalla eventuale contestazione giudiziale delle stesse.

...

Tale profilo può dunque avere rilievo esclusivamente in relazione alla ulteriore doglianza con cui si sostiene che, nella tavola di progetto rassegnata, la situazione dei luoghi antecedentemente all'intervento è stata rappresentata in maniera divergente dalla realtà, indicando un profilo del terreno più elevato di quello realmente esistente, in modo da fare apparire come seminterrato un piano che invece viene realizzato fuori terra (soggiungendosi che ad opere eseguite verrà effettuato un riporto di terreno a monte in modo da rendere interrato il primo piano).

In relazione a tale doglianza, va osservato che i volumi che sporgono al di sopra della linea naturale del terreno modificano in modo permanente la conformazione del suolo e dell’ambiente, così incidendo sugli specifici valori urbanistico-edilizi che le prescrizioni dettate dagli strumenti urbanistici in tema di altezza e di volumetria degli edifici sono dirette a tutelare in una visione organica e globale della zona (cfr. TAR Basilicata 9.8.2000 n. 480, Cons. St. Sez. V 29.9.1997 n. 1065).

Per costante giurisprudenza, il piano di campagna da assumere come riferimento - al fine di delineare la posizione altimetrica del fabbricato edificando, con i riflessi che ne derivano sul piano della relativa valutazione urbanistica - è quello non alterato da modifiche indotte dall’attività umana, avente scopo edificatorio o colturale (cfr. TAR Catanzaro 8.10.2005 n. 1855).

In particolare, è stato rilevato che la quota naturale del terreno o piano di campagna, quale nozione tradizionalmente contemplata dagli strumenti urbanistici, si identifica con il livello dei suoli vergini, residuo finale delle azioni di modellamento naturale, prima di qualsiasi intervento umano ivi compreso l’impianto di coltura (cfr. T.A.R. Lombardia, Brescia, 8.9.1994 n. 498, TRGA Trento 28.12.2005 n. 403).

Il Supremo Consesso Amministrativo ha affermato (cfr. Cons. St. Sez. V 1.7.2002 n. 3589, 21.10.1991 n. 1231, 15.6.2001 n. 3176, 4.8.1986 n. 390, 1.10.1986 n. 481) che sussiste un principio generale in base al quale, salvo che non vi siano esplicite disposizioni in contrario, in tanto i volumi costruiti al di sotto dell’originario piano di campagna non incidono sulla volumetria consentita in quanto il piano di campagna non venga definitivamente alterato dalla costruzione, pervenendo all’espressa conclusione che l’interramento deve intendersi riferito all’originario piano di campagna e non certamente a quello artificiale conseguente a consistenti reinterri (cfr. Cons. St. Sez. V 1.7.2002 n. 3589).

Ciò corrisponde a un consolidato orientamento della Cassazione (cfr. ex multis, Cassazione civile, sez. II, 11 marzo 1981, n. 1386), la quale ha affermato che, al fine di stabilire se si siano osservati i limiti di altezza fissati dai regolamenti edilizi, il calcolo relativo va effettuato facendo riferimento al piano di posa dell'edificio, che, eccettuati i casi di una diversa disposizione dello strumento urbanistico locale e della correlazione dell'altezza dei fabbricati alla larghezza delle strade su cui prospettano - coincide con il piano naturale di campagna.

 

Consiglio di Stato, Sez. IV, 4 aprile 2012

Testo Unico edilizia - silenzi amministrativi e poteri delle regioni a disciplinare diversamente

La sentenza si occupa del silenzio espresso all'art. 36 del testo unico edilizia che, notoriamente, si qualifica come silenzio rigetto allo scadere dei 60 giorni dalla presentazione dell'istanza per accertamento di conformità (permesso di costruire in sanatoria).

Sulla possibilità da parte delle Regioni di modificare la natura dei silenzi previsti dal testo unico edilizia così si esprime il Consiglio di Stato:

5.2. Come è ben noto, l’art. 1 del T.U. approvato con D.P.R. 6 giugno 2001 n. 380 afferma che tale testo normativo “contiene i principi fondamentali e generali”, nonchè “le disposizioni per la disciplina dell’attività edilizia”.

L’art. 2 dello stesso T.U. dispone, quindi, al comma 1 che “le Regioni esercitano la potestà legislativa concorrente in materia edilizia nel rispetto dei principi fondamentali della legislazione statale desumibili dalle disposizioni contenute nel testo unico”, fermo restando che “le disposizioni, anche di dettaglio” del T.U. medesimo, “attuative dei principi di riordino in esso contenuti, operano direttamente nei riguardi delle Regioni a statuto ordinario, fino a quando esse non si adeguano ai principi medesimi”.

Come a ragione ha evidenziato l’attuale appellante, non va obliterata la circostanza che con sentenza della Corte Costituzionale n. 196 dd. 28 giugno 2004 è stato – tra l’altro – dichiarato costituzionalmente illegittimo per violazione dell’art. 117 Cost., come modificato dall’art. 3 della L. cost. 18 ottobre 2001 n. 3, l’art. 32, comma 37, del D.L. 30 settembre 2003 n. 269 convertito con modificazioni in L. 24 novembre 2003 n. 326 nella parte in cui non prevede che con legge regionale si possa disciplinare diversamente gli effetti del silenzio serbato dal Comune, protratto oltre il termine ivi previsto, sulle domande presentate dagli interessati al fine di ottenere il rilascio della sanatoria contemplata dal medesimo art. 32.

Il giudice delle leggi ha pertanto in tal modo riconosciuto al legislatore regionale la competenza a normare in modo diverso dal legislatore statuale le ipotesi di silenzio significativo relative ai procedimenti edilizi.

Né poteva essere diversamente, anche in considerazione delle susseguenti evoluzioni della disciplina di principio di fonte statuale, posto che a’ sensi dell’attuale testo dell’art. 20, comma 4, della L. 7 agosto 1990 n. 241 (ossia come da ultimo sostituito per effetto dell’art. 3, comma 6-ter, del D.L. 14 marzo 2005 n. 35, convertito con modificazioni in L. 14 maggio 2005 n. 80) il legislatore, derogando alla valenza generale dell’istituto del silenzio-assenso, è sempre libero di qualificare espressamente il silenzio dell’Amministrazione come rigetto dell’istanza, e che tale discrezionalità va riconosciuta pure al legislatore regionale nell’ambito delle proprie competenze, anche di tipo concorrente.

Se così è, ai fini del decidere non necessita pronunciarsi sulla petizione di principio – enunciata dal giudice di primo grado ma smentita dalla Corte Costituzionale - secondo cui la qualificazione, da parte del legislatore nazionale, del silenzio come atto tacito di diniego esprimerebbe un principio fondamentale della materia urbanistica, come tale non derogabile da parte del legislatore regionale; né segnatamente necessita esprimersi sulla possibilità – o meno - per il legislatore regionale di derogare all’istituto del silenzio-assenso laddove autonomamente disciplini nel proprio “sistema” l’accertamento di conformità altrimenti normato dall’art. 36 del T.U. 380 del 2001: occorre – viceversa - verificare se nel caso di specie il legislatore regionale toscano abbia in effetti espunto dal proprio ordinamento, nell’arco temporale della vigenza dei testi degli artt. 83 e 140 della L.R. 1 del 2005 antecedenti alla novella introdotta con L.R. 40 del 2011, la disposizione contenuta nel medesimo art. 36 che espressamente qualifica l’inerzia dell’amministrazione comunale come silenzio-rigetto.

 

Cass. Pen., Sez. IV, 20 marzo 2012

Infortunio mortale - ruolo del direttore dei lavori - funzione e contenuti del progetto riservato a tecnico abilitato

La sentenza della Suprema Corte si occupa delle responsabilità penali del tecnico progettista e direttore dei lavori della ristrutturazione del piano primo, lavori che hanno comportato il crollo del solaio sul piano terra causando la morte di un'occupante anche per il fatto che al piano terra venivano svolti dei lavori quali la demolizione dell'intonaco a soffitto (riconosciuta come concausa).

Dalle argomentazioni della sentenza si ritiene emergano alcuni aspetti meritevoli di evidenza:

  • il tecnico progettista e direttore dei lavori era l'unica figura tecnica e professionale nell'ambito delle opere di ristrutturazione del piano primo (i cui lavori sono stati la causa del crollo del solaio);
  • per il Giudice di appello il progetto di ristrutturazione redatto dal tecnico per il piano primo era "inidoneo e insufficiente, in quanto prendeva in considerazione solo gli aspetti architettonici senza preoccuparsi della parte strutturale ed in specie dei problemi di staticità del solaio a volta".

La Suprema Corte respinge il ricorso del tecnico progettista-direttore dei lavori perchè infondato, confermando che:

Si osserva che i giudici di merito hanno manifestato un logico, coerente ed adeguato apparato argomentativo con il quale sono stati in modo ampio evidenziati ed esaminati gli elementi di prova a disposizione, è stata fornita una corretta e ragionevole interpretazione di essi, sono state indicate le specifiche ragioni che hanno indotto a scegliere alcune conclusioni processuali e non altre, sono state date risposte esaustive alle obbiezioni dei difensori.

In particolare, gli accertamenti tecnici svolti hanno acclarato che l'evento aveva avuto luogo a causa di una serie di iniziative tecniche non corrette compiute nell'ambito dei lavori di ristrutturazione in corso sia al primo piano, dove era caduto il solaio, e sia nei locali sottostanti. Al riguardo, risulta correttamente applicato il principio, ai fini dell'individuazione del nesso eziologico, della pari equivalenza delle plurime cause che sono intervenute nella determinazione di un evento, salvo la ricorrenza di prova certa che una sola circostanza sia stata sufficiente da sola a provocare l'occorso. Il che non appare evidenziarsi nel caso di specie. D'altro canto, il giudizio sulla ricorrenza del nesso di causalità costituisce una valutazione di fatto riservata al giudice di merito e non sindacabile in sede di legittimità se congruamente e logicamente argomentata.

Inoltre, appaiono ben individuati i profili di colpa attribuiti al geom. El.St. , come delineati dai giudici di merito, i quali hanno sottolineato che egli era l'unico tecnico incaricato dalla proprietà circa l'esecuzione dei lavori. Questi, nel progetto redatto non aveva affatto preso in considerazione le problematiche strutturali e statiche dell'immobile in corso di ristrutturazione.

Ancora, l'El. , nell'intento poi in corso d'opera di rinforzare le volte del solaio, aveva commesso degli errori tecnici facendo montare una rete elettrosaldata in modo errato, aveva fatto eseguire tracce profonde di 10-12 cm sui rinfranchi, ulteriormente indebolendo così la tenuta del solaio; aveva consentito l'accumulo di materiale molto pesante proprio al centro del solaio; aveva fatto rinforzare ed aumentare di consistenza al primo piano un tramezzo, ritenendolo una spalla della volta e che invece era "in falso" (cioè privo di corrispondenza nel piano sottostante) e quindi in tal modo era stato aumentato il peso gravante sulla volta.

 

TAR Lombardia, Brescia, sez. II, 26 marzo 2012

Progettista legittimazione ad impugnare il provvedimento amministrativo - questioni igienico-sanitarie

Dal sito Ediltecnico di Maggioli Editore viene data notizia della sentenza in evidenzia con commento della dott.ssa Mafrica. La sentenza affronta una questione molto dibattuta, ossia la legittimazione o meno in capo al progettista di impugnare il diniego del titolo abilitativo edilizio, questione che si pone in tutta la sua importanza in conseguenza dell'asseverazione richiesta al progettista, giunge ad affermare che:

Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono svolgere le seguenti considerazioni:

(a) per quanto riguarda la legittimazione ad agire, si ritiene che la qualità di progettista sia sufficiente a consentire l’impugnazione del diniego di titolo edilizio fondato sul contrasto con la disciplina urbanistica, se il progettista aveva dichiarato in precedenza, all’amministrazione e al proprio cliente, la piena conformità urbanistica e quindi la fattibilità giuridica dell’opera. In questo caso viene infatti in rilievo la credibilità professionale del progettista, che costituisce un bene della vita meritevole di tutela sia come interesse sostanziale di natura morale sia come garanzia contro eventuali richieste risarcitorie;

(b) in questa prospettiva il ricorso promosso dal progettista ha un duplice oggetto: l’accertamento dell’errore dell’amministrazione e l’annullamento del provvedimento che nega il titolo edilizio. Normalmente il primo obiettivo è sufficiente a soddisfare le aspettative del progettista, che vede in questo modo riconosciuta la correttezza del proprio operato professionale, ma anche l’annullamento del provvedimento di diniego costituisce un’utilità legittimamente perseguibile, in vista della riproposizione del medesimo intervento edilizio o di una soluzione costruttiva analoga;

(c) certamente l’interesse del progettista non deve entrare in conflitto con quello del suo cliente, nel senso che il risultato del ricorso non deve nuocere alla posizione giuridica di quest’ultimo. La progettazione è infatti strumentale alla realizzazione dell’intervento edilizio e questa gerarchia va mantenuta anche in sede processuale. Nello specifico i titolari dell’azienda agricola hanno fatto acquiescenza al diniego di titolo edilizio individuando una diversa localizzazione per i loro fabbricati in conformità alle indicazioni del Comune. È evidente che rispetto a questa scelta l’eventuale accoglimento del ricorso è un fenomeno del tutto neutro, perché non può incidere sulle edificazioni intervenute medio tempore. Con riguardo poi alle facoltà edificatorie complessive dell’azienda agricola l’accoglimento del ricorso avrebbe un effetto ampliativo, in particolare consentirebbe di realizzare le estensioni inizialmente progettate (potenziando ulteriormente l’attività imprenditoriale). Vi è quindi allineamento (e non conflitto) tra l’utilità del progettista e quella del cliente, con la conseguente ammissibilità del ricorso;

(d) passando al merito, occorre sottolineare subito che la motivazione con cui il Comune ha negato il titolo edilizio non è del tutto soddisfacente. L’art. 46 punto A.3.5-g delle NTA pone infatti un limite, sotto forma di distanza minima, alla realizzazione di nuovi allevamenti ma non inibisce gli interventi di ristrutturazione. Questa distinzione non deve essere sottovalutata. Quando un’azienda agricola dedita all’allevamento è già insediata in un determinato sito il potenziamento dell’attività è tutelato dal principio di prevenzione, che, mutuato dalla disciplina civilistica sulle distanze dai confini, acquista in ambito urbanistico una particolare forza espansiva coinvolgendo non solo le costruzioni ma anche le destinazioni d’uso presenti. Per questa via è quindi possibile che un’azienda preesistente, pur non potendo osservare la disciplina sulle distanze minime, ottenga il permesso di modificare (anche con interventi di ristrutturazione pesante ai sensi dell’art. 10 comma 1-c del DPR 6 giugno 2001 n. 380) gli edifici produttivi;

(e) quello che risulta ammissibile sul piano urbanistico non è però necessariamente consentito dalla normativa igienico-sanitaria. Anche le aziende già insediate devono sottostare alle disposizioni che tutelano la salute delle persone e la qualità della vita e dell’ambiente. In questo caso il principio di prevenzione non può operare, perché gli interessi pubblici in materia igienico-sanitaria sono immediatamente preminenti (e tali rimangono) rispetto alla situazione dei luoghi e alle attività svolte;

(f) proprio in considerazione della gravosità della disciplina igienico-sanitaria, specie se applicata a realtà preesistenti, le norme del regolamento locale di igiene prevedono normalmente la possibilità di una deroga alle distanze minime in presenza di soluzioni tecniche in grado di assicurare la medesima protezione. Come evidenziato nel ricorso, la facoltà di deroga è nello specifico disciplinata dall’art. 2.15.3 e dall’art. 2.15.17 del regolamento locale di igiene (il primo è riferito agli allevamenti esistenti, il secondo rappresenta una norma di chiusura);

(g) la deroga non è però un atto dovuto, perché l’amministrazione (ossia il Comune) mantiene il potere di valutare la convenienza e l’affidabilità delle soluzioni proposte dai privati. Il fatto che la ASL abbia dato parere favorevole ai progetti predisposti dal ricorrente non vincola il Comune nella decisione finale, in quanto un parere favorevole stabilisce la presenza delle condizioni minime per la deroga al requisito della distanza ma non cancella il potere di individuare un livello più elevato di protezione rispetto alle emissioni che provengono dagli allevamenti;

(h) si tratta certamente di un potere che deve essere utilizzato secondo parametri ragionevoli e nel rispetto del principio di proporzionalità. Nel caso in esame queste condizioni sembrano rispettate. Appare in effetti ragionevole che il Comune abbia ritenuto inderogabile la distanza minima in un contesto caratterizzato dalla presenza di strutture pubbliche ad alta concentrazione di utenti come la palestra comunale e il plesso scolastico. In particolare può essere considerata legittima la preoccupazione di tutelare gli studenti evitando il rischio di una maggiore esposizione alle emissioni dell’allevamento, il quale si trova a breve distanza ed è quindi in grado di incidere già adesso significativamente sulla vivibilità delle aree scolastiche. D’altra parte la breve distanza rende poco verosimile che attraverso soluzioni tecniche si possano ridurre, o almeno non incrementare, le molestie per quanti frequentano la zona circostante;

(i) in definitiva sul piano igienico-sanitario la disciplina concretamente applicabile, quando viene in rilievo la necessità di introdurre deroghe, è costituita dalla previsione del regolamento locale di igiene e dalle valutazioni discrezionali dell’amministrazione. Nel caso in esame la soluzione voluta dall’amministrazione appare giustificata.

 

TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 26 marzo 2012

L'aerofotgrammetria non è probatoria di abusi edilizi

La sentenza evidenzia che:

Per consolidata giurisprudenza (cfr. ex multis T.A.R. Puglia Lecce, sez. III, 09 novembre 2010 , n. 2631) chi contesta la legittimità dell'ordinanza di demolizione di un manufatto abusivo realizzato fuori dal centro abitato ante 1.9.1967 ha l'onere di fornire perlomeno un principio di prova in ordine al tempo dell'ultimazione di quest'ultimo.

Nella fattispecie, come già evidenziato nella fase cautelare, il ricorrente ha fornito tale principio di prova.

Per contro il Comune si fonda esclusivamente sulle risultanze aerofotogrammetriche.

Peraltro, la documentazione fotografica prodotta in giudizio dall’Amministrazione evidenzia l’assoluta inidoneità delle rappresentazioni del 1971 e del 1987 (per scala rappresentativa e qualità dell’immagine) a dare conto della sussistenza o meno dei due fabbricati di cui si predica l’inesistenza.

Va rilevato che, in via generale, la sola aerofotogrammetria non risulta di per sé idonea a dare conto della reale consistenza e caratteristica costruttiva del bene (cfr. in tal senso, in una vicenda analoga, ancorché a parti invertite: T.A.R. Campania, Sez. III, 18 gennaio 2011 n. 280).

 

Consiglio di Stato, Sez. IV, 16 marzo 2012

DIA-SCIA: natura, impugnazione, interpretazione autentica

La sentenza, relativa ad una complessa vicenda, sembra rilevare per il fatto che argomenta in merito alla DIA-SCIA dopo l'Adunanza Plenaria n. 15/2011 e la legge 148/2011 (ved. anche TAR Veneto sotto riportata):

Passando all’esame del merito, in ordine logico vanno prioritariamente esaminati i motivi, presenti in entrambi gli appelli qui riuniti, con i quali si reitera l’originaria eccezione di inammissibilità delle impugnative proposte avverso le due dichiarazioni di inizio attività presentate dalla Associazione odierna appellante, evocando la vexata quaestio– di recente affrontata dall’Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato con la sentenza nr. 15 del 29 luglio 2011 – della natura giuridica della D.I.A. e dei rimedi a disposizione del terzo che se ne assuma leso.

Nel primo appello, per vero, viene parzialmente modificata la stessa prospettazione di primo grado, laddove l’Associazione si era limitata a eccepire la tardività dell’impugnazione della D.I.A., mentre oggi se ne sostiene sic et simpliciter la non impugnabilità in quanto atto privato (ciò che indurrebbe a dubitare della stessa ammissibilità del motivo, giusta il divieto di jus novorum di cui all’art. 104 cod. proc. amm.); nel secondo appello, la questione è sollevata nell’appello incidentale del Comune, laddove è invocata la norma sopravvenuta di cui all’art. 19, comma 6 ter, della legge 7 agosto 1990, nr. 241, come modificato dal d.l. 13 agosto 2011, nr. 138, convertito in legge 14 settembre 2011, nr. 148, che come noto contiene un’espressa affermazione circa il carattere non provvedimentale della D.I.A (oggi S.C.I.A.).

Principiando da quest’ultima questione, la Sezione osserva che esula totalmente dal presente giudizio il tema dell’impatto della nuova normativa da ultimo richiamata sui principi enunciati nella ricordata sentenza nr. 15 del 2011 dell’Adunanza Plenaria, essendo la novella del 2011 ratione temporis non applicabile alla vicenda per cui è causa.

In particolare, non può in alcun modo convenirsi con l’avviso dell’Amministrazione comunale, secondo cui la predetta novella integrerebbe un’ipotesi di interpretazione autentica, come tale destinata ad applicarsi anche retroattivamente.

Al riguardo, va richiamato il costante insegnamento della Corte costituzionale, secondo cui perché una norma possa dirsi di interpretazione autentica non è sufficiente che si sia in presenza di incertezze sull’applicazione di una disposizione o di contrasti giurisprudenziali e che la scelta imposta dalla legge rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario, con ciò vincolando un significato ascrivibile alla norma anteriore (cfr. sentt. 11 giugno 2010, nr. 209, e 22 novembre 2000, nr. 525; in senso conforme, ex plurimis, sentt. 23 luglio 2002, nr. 374, e 4 febbraio 2003, nr. 26), ma occorre anche che siano rispettati una serie di limiti generali all’efficacia retroattiva delle leggi, che attengono alla salvaguardia, oltre che dei principi costituzionali, di altri fondamentali valori di civiltà giuridica posti a tutela dei destinatari della norma e dello stesso ordinamento, tra i quali vanno ricompresi il rispetto del principio generale di ragionevolezza che ridonda nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento, la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto, la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico, il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario (cfr. sent. 23 novembre 1994, nr. 397).

Nel caso che qui occupa, in disparte ogni approfondimento della portata della modifica introdotta nel 2011, è evidente che essa è suscettibile di essere intesa come opzione limitatrice degli strumenti di tutela, anche giurisdizionale, messi a disposizione del cittadino che si assuma leso dall’altrui attività edificatoria: di modo che non può assolutamente concludersi, in assenza di specifica indicazione sul punto, nel senso di una sua efficacia retroattiva.

Per quanto concerne invece la questione di tardività dell’originaria impugnazione della D.I.A. (ovvero della non impugnabilità in assoluto di essa), l’infondatezza della censura emerge dalla piana applicazione dei principi enunciati dall’Adunanza Plenaria nella più volte citata sentenza nr. 15 del 2011, alla stregua della quale il particolare meccanismo della D.I.A. comporta che ad essere impugnato da parte del terzo è il provvedimento tacito che si perfeziona con il mancato esercizio del potere di controllo e inibitorio attribuito all’Amministrazione alla scadenza del termine di legge (nella specie, 30 giorni a norma dell’art. 84 della legge provinciale 5 settembre 1991, nr. 22).

Ne discende che anche in questo caso trovano applicazione i comuni principi in tema di impugnazione del titolo ad aedificandum da parte del terzo, e quindi il consolidato indirizzo secondo cui la lesività di tale titolo può essere apprezzata dal vicino che se ne dolga esclusivamente alla data di ultimazione dei lavori, se solo in tale momento è consentito avere piena cognizione della esistenza e della entità delle violazioni edilizie, per cui a tale fine è insufficiente fare riferimento all’atto abilitativo o soltanto all’inizio dei lavori, incombendo, tra l’altro, la prova della eventuale tardività alla parte che la eccepisce (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 28 gennaio 2011, nr. 678; in termini, Cons. Stato, sez. IV, 27 maggio 2010, nr. 3378; id., 29 maggio 2009, nr. 3358; id., 31 luglio 2008, nr. 3849; id., 8 luglio 2002, n. 3805).

 

TAR Veneto, Sez. II, 5 marzo 2012

DIA e SCIA - tutela dei terzi dopo la legge 148/2011

Il Tar del Veneto (ved. anche CdS sopra citata) con la sentenza in argomento evidenzia che:

Quanto ai rimedi esperibili dal terzo controinteressato rispetto alla D.I.A., il Consiglio di Stato, con l’Adunanza Plenaria n. 15 del 29 luglio 2011, aveva stabilito che la D.I.A. non costituisce un provvedimento tacito formatosi per il decorso del termine, essendo invece una mera dichiarazione del privato rivolta all’amministrazione competente. Pertanto, secondo detta pronuncia, l’oggetto del giudizio, che vede come ricorrente il terzo leso dagli effetti della D.I.A., non può essere l’assenso tacito all’esercizio dell’attività, piuttosto, il terzo avrà l’onere d’impugnare l’inerzia dell’amministrazione, la quale, omettendo di esercitare i propri poteri inibitori, ha determinato la formazione di un provvedimento tacito di diniego di adozione di tali provvedimenti inibitori.

Nel caso di specie, la ricorrente sembra essersi adeguata a tale pronuncia del Consiglio di Stato nel momento in cui ha chiesto “l’annullamento del provvedimento tacito per silentium formatosi sulla D.I.A. a seguito del mancato esercizio da parte del Comune di Garda del potere inibitorio”.

Tuttavia, con l’art. 6 del D.L. n. 138 del 13 agosto 2011, convertito nella legge n. 148 del 2011, il legislatore è nuovamente intervenuto sulla materia, aggiungendo all’art. 19 della legge n. 241 del 1990 un comma 6 ter, il quale afferma che “la segnalazione certificata d’inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività si riferiscono ad attività liberalizzate e non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli interessati possono sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione e, in caso d’inerzia, esperire l’azione di cui all’art. 31, commi 1, 2 e 3 del D.lgs 2 luglio 2010, n. 104”.

Pertanto, il legislatore, pur recependo l’orientamento del Consiglio di Stato sulla natura giuridica della D.I.A. (oggi S.C.I.A.), come atto del privato non immediatamente impugnabile, si discosta da tale decisione quanto ai rimedi esperibili dal terzo controinteressato, il quale ha ora a disposizione solo l’azione prevista dall’art. 31 c.p.a. per i casi di silenzio della P.A. .

Dunque, quell’azione di annullamento del provvedimento tacito di diniego dei provvedimenti inibitori, introdotta solo per via giurisprudenziale dal Consiglio di Stato, è stata definitivamente espunta dal nostro ordinamento da parte del legislatore, che ha attribuito al terzo leso dagli effetti della D.I.A. (oggi S.C.I.A.) l’azione di cui all’art. 31 c.p.a. .

Peraltro, tra le correzioni ed integrazioni del Codice del processo amministrativo introdotte da ultimo dal D.lgs. 15 novembre 2011, entrato in vigore il 9 dicembre 2011, vi è l’introduzione, all’art. 31 comma 1, dopo le parole “decorsi i termini per la conclusione del procedimento amministrativo”, della frase “e negli altri casi previsti dalla legge” cui segue il periodo, rimasto immutato “chi vi ha interesse può chiedere l’accertamento dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere”.

Il riferimento agli “altri casi previsti dalla legge” nei quali è possibile agire, dunque, ex art. 31 c.p.a., a prescindere dal decorso dei termini per la conclusione del procedimento, è chiaramente diretto al nuovo comma 6 ter dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990.

Pertanto, tale ultima integrazione dell’art. 31 c.p.a., consente di agire nei confronti del silenzio della P.A. mantenuto dopo la presentazione della S.C.I.A. o della D.I.A., ben prima della scadenza del termine finale assegnato all’amministrazione per l’esercizio del potere repressivo o modificativo, e sin da quando la S.C.I.A. o la D.I.A. vengano presentate e il terzo venga a conoscenza della loro utilizzazione.

In tal caso l’azione avrà ad oggetto, più che il silenzio, direttamente l’ accertamento dei presupposti di legge per l’esercizio dell’attività oggetto della segnalazione, con i conseguenti effetti conformativi in ordine ai provvedimenti spettanti all’autorità amministrativa.

In definitiva, il rinvio operato dal legislatore all’istituto del silenzio, non riduce in maniera significativa l’ambito di tutela del quale il terzo si può giovare, considerato anche che quest’ultimo, pur trascorso il termine assegnato all’amministrazione per l’esercizio del potere inibitorio, potrà sollecitare tramite diffida, oltre l’esercizio del potere di autotutela, anche l’esercizio dei poteri sanzionatori e repressivi sempre spettanti all’amministrazione in materia edilizia e, fintantoché l’inerzia perduri e comunque non oltre un anno dalla scadenza del termine per l’adempimento, potrà esperire l’azione di cui all’art. 31 c.p.a., richiamata dal comma 6 ter dell’art. 19 L. 241/1990.

In conclusione, sulla base del nuovo quadro normativo, applicabile, ratione temporis al ricorso in esame, il terzo leso dagli effetti della D.I.A. potrà giovarsi unicamente dell’azione avverso il silenzio, senza che possano residuare ulteriori strumenti di tutela.

 

TAR Veneto, Sez. II, 29 febbraio 2012

Gazebo: qualificazione tecnico-giuridica dell'opera/ intervento

Il Tar del Veneto con la sentenza in argomento evidenzia che:

Il Collegio osserva, inoltre, che, come affermato dalla consolidata giurisprudenza anche del giudice d’appello, i gazebo che non abbiano carattere di assoluta precarietà ma che siano funzionali a soddisfare esigenze di carattere permanente devono essere apprezzati quale manufatti che determinano una trasformazione del territorio ed un’alterazione dello stato dei luoghi, dando luogo, peraltro, ad un incremento del carico urbanistico (cfr. ex multis, Cons. St., sez. V, 1 dicembre 2003, n. 7822; T.A.R. Trentino Alto Adige, Bolzano, 06 maggio 2005, n. 172).

 

Cass. Pen., Sez. III, 29 febbraio 2012

Le responsabilità penali nel reato di costruzione abusiva

La Corte di Cassazione, terza sezione penale, con la sentenza ripropone un orientamento consolidato in riferimento alle responsabilità penali assumibili dai vari soggetti in ragione del nesso causale delle loro (esigibili) condotte con il fatto di reato:

... si osserva come la Corte territoriale si sia attenuta alla giurisprudenza della Cassazione (Sez. 3 sentenze 16571/2010, 48025/2008, 8407/2006) secondo la quale, in terna di contravvenzioni edilizie, la natura propria dell'’illecito non esclude che persone diverse da quelle qualificate dall’art. 29 c.1 TU 380/2001 possano concorrere nel reato in quanto apportino alla realizzazione dell’evento un contributo rilevante e consapevole.

Di conseguenza, è responsabile del reato di costruzione abusiva anche il mero esecutore dei lavori quando sia ravvisabile un profilo di colpa collegato alla conoscenza del carattere illecito dei lavori: ciò è configurabile quando - come nel caso concreto - non ha adempiuto all’onere di accertare il rilascio del provvedimento abilitante.

L’esecutore è, invece, esonerato da responsabilità nella ipotesi di lavori eseguiti in difformità dal titolo gravando espressamente sul direttore dei lavori l’obbligo di curarne la corrispondenza al progetto. (fonte Lexambiente)

Per quanto riguarda il direttore dei lavori, la sentenza sembra riproporre una serie di questioni:

Il fatto che con l'articolo 29 del testo unico edilizia, in modo analogo alle disposizioni precedenti che ha sostituito (cfr. art. 6 legge 47/85, art. 10 della legge 765/67), si attribuisca una responsabilità al direttore dei lavori implica anche l'obbligo di designare tale figura?

In altre parole, considerata la rilevanza penale della violazione, l'obbligo per il direttore dei lavori di vigilare sull'esecuzione (al fine che la stessa risulti conforme al titolo abilitativo edilizio) costituisce al contempo (implicitamente) anche l'obbligo di prevedere tale figura professionale?

In caso di risposta negativa (come sembra ragionevole presumere) il suddetto articolo 29 può configurare una norma penale in bianco? Ovvero, atteso che non si sono rilevati precetti primari in tal senso, legittima che la fattispecie si completi in fonti normative di natura extrapenale?

Ma è possibile, in forza del principio della tassatività della norma penale, che l'articolo 29 in discussione contenga un rinvio ad una fonte normativa integrativa del precetto penale di rango non legislativo nazionale bensì regionale o, addirittura, di tipo regolamentare locale?

E' ammissibile (e cioè costituzionalmente legittimo) che un fatto possa rilevare penalmente in modo disomogeneo nel territorio nazionale a seconda che la fattispecie trovi o meno definizione ulteriore in regolamenti locali anzichè nazionali?

Le problematiche suddette sono argomentate dall'arch. Balasso e dall'avv. Zen (presidente e vicepresidente Tecnojus) nel volume di prossima ed imminente pubblicazione (cui si darà notizia in questo "sito istituzionale" del Centro Studi.

 

 

 

Le questioni sulle norme penali in bianco e la legittimità e rilevanza penale delle fonti regolmanetari penali sono riferibili anche alla decisione della Cassazione Penale, Sezione III, del 23 febbraio 2012 secondo la quale:

Rientra tra le prescrizioni previste dal permesso di costruire, la cui inosservanza integra il reato di cui all'articolo 44, comma primo lettera a), D.p.r. 380\2001, anche l'obbligo di comunicazione della data di inizio lavori e del nominativo dell'impresa costruttrice (fonte Lexambiente).

 

C.d.S., Sez. IV, 23 febbraio 2012

Vedute: tutela anche amministrativa oltre che civilistica

Il Consiglio di Stato ribadisce che:

Come già evidenziato dal T.A.R., è stato dimostrato come, sulla base della documentazione planimetrica e fotografica, la realizzazione del complesso edilizio autorizzato con il permesso di costruire impugnato vada ad incidere negativamente sulla veduta che si ha dal proprio fondo.

La circostanza che l’interesse leso sia espressamente riconosciuto in capo al proprietario a norma della disciplina civilistica non impone peraltro di ritenere la sua tutela confinata in quell’ambito, atteso che l’individuazione di un profilo di rilevanza della situazione giuridica soggettiva appare sufficiente per fondare una legittimazione all’impugnativa degli atti ed a consentirne così il controllo giurisdizionale, anche in relazione ai canoni diversi della correttezza dell’azione amministrativa.

 

C.d.S., Sez. IV, 23 febbraio 2012

Tutela amministrativa in edilizia

Il Consiglio di Stato ribadisce che:

Deve infatti rilevarsi che, nell’ordinamento italiano, il processo amministrativo costituisce un mezzo di tutela degli interessi legittimi (e per determinati casi dei diritti soggettivi), ma a condizione che, per essi non siano decorsi i termini decadenziali o prescrizionali, per l’inizio dell’azione.

Quando il provvedimento è invece comunque divenuto inoppugnabile, l’istanza di autotutela o di attivazione dei poteri di vigilanza assume la sostanza di una richiesta di riesame della determinazione ormai definitivamente consolidatosi, rispetto alla quale non è configurabile un obbligo dell’Amministrazione di provvedere e, di conseguenza, un silenzio-rifiuto.

In materia edilizia la tutela del terzo innanzi al giudice amministrativo rimane dunque affidata o alla tempestiva impugnazione dei provvedimenti adottati dalla p.a, ovvero in caso di DIA o di SCIA, l’impugnazione -- nel termine decadenziale decorrente dal momento della conoscibilità della lesività della erigenda costruzione -- del silenzio mantenuto dall'amministrazione sulla diffida volta a provocare l'esercizio dei poteri di vigilanza alla stessa spettanti.

Pertanto, se è innegabile che la P.A. debba comportarsi secondo buona fede e correttezza, è altrettanto vero che l'Amministrazione non ha alcun obbligo di provvedere al riesame di un'istanza di revoca o di riesame di un provvedimento edilizio o di un titolo abilitativo divenuto oramai inoppugnabile.

Esattamente nel caso il Tar ha quindi richiamato l’indirizzo per cui i provvedimenti di autotutela sono espressione dell'esercizio di un potere tipicamente discrezionale dell’Amministrazione che non ha alcun obbligo di attivarlo.

 

C.d.S., Sez. IV, 23 febbraio 2012

Qualificazione tecnico-giuridica delle recinzioni e modifica della destinazione d'uso di un'area (agricola)

Il Consiglio di Stato affronta il tema delle recinzioni e la loro qualificazione tecnico-giuridica ai fini del titolo abilitativo e regime edilizio di subordinazione. Il caso è riferito alla realizzazione di una recinzione in zona agricola e stesura di ghiaino per l'esposizione di veicoli a scopo commerciale:

La giurisprudenza esattamente richiamata nella memoria per la discussione dal Comune ha quindi concordemente affermato che, contrariamente a quanto si afferma nel terzo motivo, la recinzione d'un fondo rustico, realizzata (come nel caso in esame) con istallazioni permanenti, costituisce una trasformazione permanente del territorio, a prescindere dalla realizzazione di volumetrie di qualunque natura; si tratta, in vero, di un intervento funzionale ad un permanente utilizzo commerciale dell'area (e non ad uno scopo contingente, temporaneo o occasionale) che, in quanto tale, contraddice ed impedisce definitivamente la vocazione agricola impressa dallo strumento urbanistico e implica un notevole incremento nella zona del carico urbanistico (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 30 aprile 2009, n. 2768; Cons. Stato, sez. V, 31 dicembre 2008, n. 6756; Consiglio Stato, sez. IV, 01 ottobre 2007, n. 5035; Cons. Stato, sez. IV, 22 dicembre 2005, n. 7343; Consiglio Stato, sez. V, 11 novembre 2004, n. 7324; Consiglio Stato, sez. V, 15 giugno 2000, n. 3320; Cassazione Penale III, 9/6/1982).

Del tutto erroneamente la società appellante ricollega la qualificazione giuridica del suo intervento all’asserita minimalità del profilo strutturale.

A parte che nel caso le opere erano comunque consistite nella realizzazione di un muretto in calcestruzzo con l’apposizione di una griglia zincata, con livellamento del terreno e spargimento di inerti su di un’area di notevole dimensione, tale aspetto è comunque del tutto inconferente e recessivo rispetto a quello funzionale privilegiato dal legislatore.

Nel caso di recinzione di un’area, quello che rileva giuridicamente non è solo la modificazione della condizione materiale e della conformazione naturale del suolo, ma anche e soprattutto l’utilizzo permanente dell'area in contrasto con la disciplina urbanistica ed edilizia (cfr.: Cons. Stato, sez. V, 31/01/2001, n. 343; Cons. Stato, sez. V, 20/12/1999, n. 2125; Cons. Stato, sez. V, 01/03/1993, n. 319; Cass. pen., sez. III, 24/10/1997, n. 10709; Cass. pen., Sez. VI, 24/07/1997, n. 8520).

 

C.d.S., Sez. IV, 23 febbraio 2012

Efficacia temporale del permesso di costruire

Il Consiglio di Stato conferma un costante indirizzo in materia:

Il secondo comma dell'art. 15 del t.u. 6 giugno 2001 n. 380 prevede che: ”Il termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere completata non può superare i tre anni dall'inizio dei lavori. Entrambi i termini possono essere prorogati, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso. Decorsi tali termini il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza venga richiesta una proroga. La proroga può essere accordata, con provvedimento motivato, esclusivamente in considerazione della mole dell'opera da realizzare o delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive…”.

In linea di principio, alla luce della predetta disposizione è dunque esatto (cfr. infra multa: Consiglio Stato, sez. IV, 10 agosto 2007, n. 4423; Consiglio Stato, sez. IV, 18 giugno 2008, n. 3030) che la pronuncia di decadenza del permesso di costruire:

-- è espressione di un potere strettamente vincolato;

-- ha una natura ricognitiva, perché accerta il venir meno degli effetti del titolo edilizio in conseguenza dell'inerzia del titolare ovvero della sopravvenienza di un nuovo piano regolatore

-- pertanto ha decorrenza ex tunc.

Il termine di durata del permesso edilizio, infatti, non può mai intendersi automaticamente sospeso, essendo, al contrario, sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un provvedimento da parte della stessa amministrazione che ha rilasciato il titolo ablativo, che accerti l’impossibilità del rispetto del termine; e solamente nei casi in cui possa ritenersi sopravvenuto un “factum principis” ovvero l’insorgenza di una causa di forza maggiore (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 15 luglio 2008, n. 3527; Consiglio Stato, sez. IV, 08 febbraio 2008, n. 434).

 

C.d.S., Sez. IV, 14 febbraio 2012

Accertamento abusi edilizi e natura fidefaciente del verbale

Il Consiglio di Stato conferma un costante indirizzo in materia:

In materia di edilizia ed urbanistica, è sufficientemente motivato il provvedimento che, a fronte di un abuso edilizio, ne ordina la demolizione con richiamo al verbale di sopralluogo dei tecnici comunali dato che, com’è noto, il provvedimento sanzionatorio in materia edilizia ha natura del tutto vincolata giacché è conseguente ad un accertamento tecnico della consistenza delle opere abusive realizzate. Il verbale redatto e sottoscritto dagli agenti e dai tecnici del comune a seguito di sopralluogo, attestante l'esistenza di manufatti abusivi, costituisce atto pubblico, fidefaciente fino a querela di falso, ai sensi dell'art. 2700 c.c., delle circostanze di fatto in esse accertate sia relativamente allo stato di fatto e sia rispetto allo status quo ante.

In sostanza il verbale ben può rilevare la presenza di interventi edilizi su strutture preesistenti che modificano la situazione di fatto notoriamente in essere in precedenza, ovvero quella risultante da atti comunali, dagli atti catastali, dai registri della proprietà, ecc. ecc. .

 

Cass. Pen., Sez. III, 14 febbraio 2012

Titolaritą richiedente ed illiceitą del titolo abilitativo

La Corte di Cassazione, terza sezione penale, sembra confermare l'orientemento che considera illecito il titolo abilitativo edilizio rilasciato senza l'accertamento della titolaritą del richiedente. Per i Giudici Penali:

... nel procedimento di rilascio del permesso di costruire l’amministrazione comunale ha il potere-dovere di verificare l'esistenza, in capo al richiedente, di un titolo idoneo al godimento delI’intero bene interessato dal progetto e ciò pure a fronte della pacifica circostanza che il titolo abilitativo finale è comunque sempre rilasciato "facendo salvi i diritti dei terzi".

Si tratta di un'attività istruttoria che non è diretta a risolvere i conflitti di interesse tra le parti private in ordine all’assetto proprietario degli immobili, ma che risulta invece finalizzata ad accertare il requisito della legittimazione soggettiva del richiedente.
L’esame del titolo di godimento operato dall’amministrazione, infatti, non costituisce una sorta di eccezionale intrusione in un ambito privatistico, ma rappresenta la coerente applicazione del principio secondo cui l’autorità pubblica deve sempre riscontrare la legittimazione del soggetto che propone un’istanza, nel contesto della generale esigenza di verifica sull’ordinato svolgimento delle attività sottoposte al controllo autorizzatorio [vedi sul punto C. Stato, Sez. V, 22.6.2000, n. 3525, ove è stato affermato che “assentire la realizzazione di opere edilizie a soggetti certamente privi del necessario titolo di godimento sull’immobile significherebbe alimentare il contenzioso tra le parti, con grave danno anche per l'interesse pubblico all’armonico sviluppo dell’attività di trasformazione urbanistica”].

L’affermazione del principio di necessaria verifica del titolo di legittimazione alla richiesta risulta costante nella giurisprudenza del Consiglio di Stato [vedi, tra le molteplici pronunzie, C. Stato, Sez. IV: 23.3.2004, n. 1463; Sez. V: 12.11.2002, n. 6256] ove viene altresi specificato che, a norma dell’art. 11, 1° comma, del D.P.R. n. 380/2001, “il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo” e quindi la verifica del possesso del requisito soggettivo e l’esatta delimitazione quantitativa della proprietà del bene immobile costituiscono presupposti la cui mancanza impedisce all'amministrazione di procedere oltre nell’esame del progetto [vedi C. Stato, Sez. V: 7.7.2005, n. 3730; 12.5.2003, n. 2506].

Il problema è quello di delimitare l’ampiezza dei poteri istruttori spettanti all’arnministrazìone in sede di verifica del titolo di proprietà o di godimento ed al riguardo la giurisprudenza amministrativa avverte che non incombe all’autorità che rilascia il titolo abilitativo edilizio il compimento di complesse rícognizioni giuridico­documentali in ordine ad eventuali pretese che potrebbero essere avanzate da soggetti estranei al rapporto che viene ad instaurarsi con la presentazione della richiesta del permesso di costruire [vedi C. Stato: Sez. IV, 26.5.2006, n. 3201 e Sez. V, 2.10.2002, I1. 5165].

Questo Collegio, in adesione a tale orientamento, ribadisce che l'amministrazione non ha il compito di effettuare complessi e laboriosi accertamenti diretti a ricostruire tutte le vicende riguardanti il regime della proprietà dell’immobile in relazione al quale viene richiesto il rilascio del titolo abilitante, ed anzi, in ossequio al principio generale del divieto di aggravamento, del procedimento amministrativo, la stessa può semplificare ed accelerare tutte le attività di verifica sul titolo prodotto, valorizzando gli elementi documentali forniti dalla parte interessata. In ogni caso, però, la funzione autorizzatoria richiede un livello di istruttoria che comprende l'acquisizione di tutti gli elementi sufficienti a dimostrare la sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra chi propone l’istanza ed il bene giuridico oggetto dell'autorizzazione e non si può prescindere dal considerare i presupposti di fatto e di diritto che comunque possono incidere sulla disponibilità dell’area da edificare da parte del richiedente.

La P.A., in sostanza, non deve spingersi a verificare di ufficio eventuali elementi preclusivi, limitativi o estintivi del titolo di disponibilità allegato dal richiedente ma, qualora nel corso del procedimento vi siano state acquisizioni da cui possa fondatamente dedursi la sussistenza di elementi siffatti, non può esimersi dal vagliarle e dal dare conto della effettuata valutazione nel provvedimento conclusivo.

Il livello di istruttoria che deve essere svolta deve consentire, in ogni caso, di dare conto della esistenza di elementi sufficienti ad illustrare un qualificato collegamento soggettivo tra chi ha proposto l'istanza ed il bene giuridico oggetto dell'autorizzazione.

Nella sentenza trova spazio anche una valutazione delle fasce di rispetto stradale:

Per quanto attiene, poi, alla contestata edificazione di parte del fabbricato in una zona di rispetto di strada pubblica, va rilevato che l'imposizione di fasce di rispetto stradali, prescrivendo per lo più obblighi di distanza (quale standard speciale la cui operatività si ricollega al recepimento nello strumento urbanistico), sia pure di natura pennanente, non costituisce vincolo indennizzabile, in quanto l’area in esse ricompresa ben può essere computata ai della volumetria edificabile.

Gli strumenti di pianificazione, però, possono pure impone al riguardo veri e propri vincoli di inedificabilità assoluta, sostanzialmente a contenuto espropriativo, soggetti a decadenza quinquennale ai sensi dell’art. 9 del T .U. n. 327/2001.

Nella vicenda in esame il Tribunale non ha chiarito quale sia la effettiva situazione giuridica e ciò acquista rilievo essenziale in quanto: a) se si fosse in presenza di un vincolo di inedificabilità assoluta, esso avrebbe durata quinquennale e, dopo la scadenza, l'edificabilità delle aree non più vincolate sarebbe ammessa solo entro i limiti previsti dalla normativa
vigente per l’attività edilizia nei Comuni sprovvisti degli strumenti urbanistici generali (assimilabilità alle cc. dd. zone bianche); b) se si trattasse, invece, di una mera imposizione di distanze, solo conforrnativa della proprietà, la traslazione di fatto della strada avrebbe imposto una conseguente modificazione delle previsioni di piano, che non può ritenersi implicitamente correlata alla mutata situazione di fatto, ma doveva introdursi con la procedura delle varianti di piano prescritta dalla legislazione urbanistica della Regione Molise
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(fonte Lexambiente)

 

Nota del 5.3.2012: In questo senso cfr. anche Consiglio di Stato, 23.2.2012

 

Cass. Pen., Sez. III, 14 febbraio 2012

Nozione di "costruzione" nei regimi edilizi

La Corte di Cassazione, terza sezione penale, dą evidenza al fatto che il testo unico edilizia definisce gli interventi di "nuova costruzione" con il c.d. criterio residuale, ossia rientrano in tale categoria tutti gli interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio che non possono qualificarsi manutenzione ordinaria, manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo e ristrutturazione edilizia.

Ben noto risulta il fatto che la "trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio" può realizzarsi con interventi costruttivi ovvero con altri interventi non propriamente tali (es. mutamento funzionale della destinazione d'uso, depositi, ecc.).

Per quanto concerne l'intervento costruttivo, la Suprema Corte definisce la nozione tecnico-giuridica di "costruzione":

Costituisce, pertanto, "costruzione" in senso tecnico-giuridico qualsiasi manufatto tridimensionale, comunque realizzato, che ... comporti una ben definita occupazione del terreno e dello spazione aereo.

Il Supremo Consesso, dunque, mette in evidenza la finalizzazione delle "costruzioni": devono avere come conseguenza la trasformazione permanente del suolo inedificato.

(fonte Lexambiente)

 

Cass. Pen., Sez. III, 14 febbraio 2012

Denuncia delle opere strutturali e varianti in corso d'opera

La Corte di Cassazione, terza sezione penale, affronta in sentenza le questioni relative alle varianti in corso d'opera e la denuncia preventiva delle medesime, come previsto dalle disposizioni inerenti le opere in c.a. e le costruzioni in zona sismica.

A parte il rapporto tra normativa statale e normativa regionale, l'aspetto che si ritiene maggiormente interessante riguarda una deduzione: l'obbligo di autorizzazione/denuncia preventiva sussiste sempre in presenza di varianti sostanziali del progetto che incidono sulla struttura delle opere (verosimilmente in ragione della finalità pubblicistica tutelata).

In caso diverso, sembrerebbe che ai fini del rilievo penale delle condotte, l'efficacia esimente può essere valutata in ordine:

  • alla qualificazione delle varianti: non devono determinarsi significative difformità sul piano strutturale (verosilmente nella concezione strutturale, sistemi costruttivi, ecc.) e dei carichi rispetto al progetto presentato;
  • al fatto che a fronte degli eventuali imprevisti "non significativi" che possono verificarsi in corso d'opera, si provveda tempestivamente alla richiesta di variante, senza attendere i controlli che rilevino l'irregolarità.

Appare ragionevole che le varianti in questione debbano pur sempre qualificarsi come varianti strutturali. Pertanto solo in seguito sembra possibile distinguere quelle significative richiedenti la sospensione dei lavori e gli adempimenti preventivi normativamente prescritti, e quelle non significative che possono essere "regolarizzate" in corso d'opera con la tempestiva richiesta.

(fonte Lexambiente)

 

Cass. Pen., Sez. III, 14 febbraio 2012

La valutazione degli interventi nei regimi edilizi

La Corte di Cassazione, terza sezione penale, conferma la necessitą di valutare complessivamente l'attivitą edificatoria, senza artificiose suddivisioni nelle singole opere che concorrono a realizzarla e che, autonomamente considerate, sarebbero suscettibili di forme di controllo pił limitato per la loro pił modesta incisivitą sull'assetto territoriale

l'opera deve essere considerata unitariamente nel suo complesso, senza che sia consentito scindere e considerare separatamente i suoi singoli componenti.

(cfr. anche: Cass., Sez. III, 29.1.2003, Tucci; 11.10.2005, Daniele)

Le "singole opere" in questione, per il caso in esame, consistevano nella realizzazione:

  • di una copertura inclinata con creazione di un sottotetto (per le parti da qualificare come volume tecnico);
  • di una tettoia addossata all'edificio (per le parti da qualificare come pertinenza urbanistica);
  • di un muretto in c.a. (per le parti da qualificare come recinzione e non come muro di contenimento come invece contestato).

La Suprema Corte ripete in sentenza i propri orientamenti sulla qualificazione tecnico-giuridica di tali opere le quali, ancorchè di modesta incisività sull'assetto territoriale, se singolarmente considerate, per il richiamato principio dell'unitarietà danno luogo ad un intervento sostanziale subordinato alla tutela penalistica.

Si pone la questione (non affrontata in sentenza) del "quando" soccorre tale valutazione unitaria ben potendo tali opere essere eseguite in tempi differenti e senza che vi siano volontà elusive. Precedenti pronunce hanno evidenziato che occorre una valutazione complessiva anche nel tempo.

(fonte Lexambiente)

 

TAR Veneto, Sez. II, 8 febbraio 2012

Ricostruzione su ruderi e DIA - uso di materiali diversi: è variante essenziale

Il TAR del Veneto evidenzia che:

Invero, a prescindere da alcuni bizzarri profili della lite (è stata depositata una risalente fotografia con un bambino con una costruzione sullo sfondo: secondo i ricorrenti, il primo sarebbe l’attuale sindaco; la seconda corrisponderebbe all’attuale rudere), costituisce giurisprudenza consolidata e condivisibile che “la ricostruzione di ruderi deve essere considerata, a tutti gli effetti, realizzazione di una nuova costruzione, non essendo equiparabile alla ristrutturazione edilizia, con la conseguenza che per la sua realizzazione è necessario il permesso di costruzione, non essendo possibile far ricorso alla denuncia di inizio di attività, ai sensi dell'art. 1 comma 6 l. 21 dicembre 2001 n. 443” (C.d.S., IV, 15 settembre 2006, n. 5375; conf. C.d.S., V, 10 febbraio 2004, n. 475; T.A.R. Campania Napoli, sez. VIII, 4 marzo 2010, n. 1286).

A questo punto, per darne un significato aderente al principio di legalità, si deve ritenere che la d.i.a. allora rilasciata sia quella alternativa al permesso di costruire (la cd. super dia), e segnatamente, quella di cui all’art. 22, III comma, lett. a), del d.P.R. 380/01, per cui, in alternativa al permesso di costruire, possono essere appunto realizzati, mediante denuncia di inizio attività, gli interventi di ristrutturazione di cui all'articolo 10, I comma, lettera c), e cioè quelli che “portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici”.

In effetti, poiché non è qui possibile accertare puntualmente le caratteristiche dell’edificio preesistente, nemmeno per il progettista, non si può presumere, fino a prova contraria, che la nuova opera sia stata realizzata in conformità a quella: si deve allora pervenire obbligatoriamente alla conclusione opposta, e cioè che non lo sia.

Ciò posto, è ovviamente da escludere che il Comune potesse opporsi al completamento della costruzione perché quanto costruito, per volume, sagoma o prospetti diverge dall’edificio preesistente al crollo; è invece da stabilire se lo ha potuto legittimamente fare perché nel progetto di costruzione, di cui alla d.i.a. del 2004, si era previsto di realizzare l’opera in sasso e cotto portanti, mentre i materiali effettivamente già utilizzati e quelli che si intendevano impiegare per completare l’opera, sono del tutto differenti.

Orbene, bisogna intanto ribadire che la ristrutturazione in esame non è quella di cui all’art. 3, I comma, lett. d), del d.P.R. 380/01, poiché non si può affermare che si stia costruendo un immobile identico ad altro preesistente, e la tesi dei ricorrenti, per cui i materiali impiegati sarebbero irrilevanti dopo la riforma del citato art. 3, va senz’altro respinta.

Il manufatto deve viceversa ritenersi assoggettato – sia pure con specifici limiti - alla disciplina propria degli interventi soggetti a permesso di costruzione – essendo per questi la d.i.a. una semplice modalità alternativa per legittimare l’intervento, senza che ne venga tuttavia meno la rilevanza in ordine alla trasformazione del territorio – e, dunque, anche alla disciplina, di cui agli artt. 31 segg. d.P.R. 380/01, che riguarda gli interventi eseguiti “in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali”.

Orbene, è da affermare che, in specie, l’utilizzo di materiali diversi per la costruzione, rispetto a quelli indicati nel permesso di costruzione – o in specie, nella d.i.a. - costituisca una variazione essenziale dell’intervento, con riguardo alle previsioni di cui all’art. 32, lett. c) - modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato ovvero della localizzazione dell'edificio sull'area di pertinenza – ovvero di cui alla lettera d) - mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio assentito.

È infatti da osservare come le norme tecniche del locale piano regolatore, in materia di "caratteristiche edilizie delle costruzioni nelle zone agricole" (e tale è quella in questione) stabiliscano che ogni edificazione nelle zone agricole, comprese le opere di ristrutturazione, “dovrà essere effettuata in armonia con le forme tradizionali dell'edilizia rurale locale": tale era stata ritenuta la struttura portante della costruzione in sasso e cotto, e tale era il carattere dell’intervento che era stato approvato nel 2004.

Ne consegue che legittimamente il Comune ha vietato il completamento dell’intervento, il quale presentava variazioni essenziali rispetto a quello approvato: la struttura in legno – quale ne fosse il grado di realizzazione - era dunque effettivamente abusiva, ed a ragione l’Amministrazione non ne ha consentito il completamento.

 

TAR Veneto, Sez. II, 8 febbraio 2012

Vigilanza sull'attività edilizia: sospensione lavori ex art. 27 e funzioni del certificato di agibilità

Il TAR del Veneto evidenzia che:

...secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, condiviso dal Collegio, il potere di sospensione dei lavori in corso, attribuito all'autorità comunale dall'art. 27, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001, è di tipo cautelare, in quanto destinato ad evitare che la prosecuzione dei lavori determini un aggravarsi del danno urbanistico, e alla descritta natura interinale del potere segue che il provvedimento emanato nel suo esercizio ha la caratteristica della provvisorietà, fino all'adozione dei provvedimenti definitivi. Ne discende che, a seguito dello spirare del termine di 45 giorni, ove l'amministrazione non abbia emanato alcun provvedimento sanzionatorio definitivo, l'ordine in questione perde ogni efficacia (cfr. tra le tante T.A.R. Campania Salerno, sez. II, 06 ottobre 2005 , n. 1901), mentre, nell'ipotesi di emanazione del provvedimento sanzionatorio, è in virtù di quest'ultimo che viene a determinarsi la lesione della sfera giuridica del destinatario (cfr. T.A.R. Lazio Roma, sez. II, 21 luglio 2005, n. 5810) con conseguente "assorbimento" dell' ordine di sospensione dei lavori.

il certificato di agibilità attesta la corrispondenza dell’opera realizzata al progetto assentito, dal punto di vista dimensionale, della destinazione d’uso e delle eventuali prescrizioni contenute nel titolo, nonché certifica la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità degli edifici, di risparmio energetico e di sicurezza degli impianti installati, alla stregua della normativa vigente (cfr. TAR Umbria, 18.11.2010, n. 512).

Orbene, siccome la conformità dei manufatti alle norme urbanistico - edilizie costituisce presupposto indispensabile per il legittimo rilascio del certificato di agibilità, come si evince dall’art. 24 del D.P.R. n. 380/2001, ne discende che in assenza del titolo edilizio per la realizzazione delle opere necessarie al cambio di destinazione d’uso, correttamente l’Amministrazione comunale ha constatato l’assenza di agibilità per il fabbricato dell’Associazione ricorrente. Né d’altro canto spiega alcuna incidenza sulla predetta constatazione l’esistenza del certificato di agibilità rilasciato nel 1997 in relazione al medesimo immobile, essendo lo stesso relativo allo stato dei luoghi e alla destinazione d’uso antecedente alle modifiche apportate con le opere oggetto della SCIA n. 482/2010.

 

TAR Veneto, Sez. II, 8 febbraio 2012

Annullamento in autotutela del permesso di costruire

Il TAR del Veneto evidenzia che:

...il legislatore ha dettato norme in tema di autotutela amministrativa, recependo i principi giurisprudenziali e la prassi amministrativa formatisi in assenza di una disciplina normativa.

Tra questi, la regola secondo la quale il provvedimento di annullamento in autotutela costituisce manifestazione della discrezionalità dell'Amministrazione, nel senso che essa non è obbligata a ritirare gli atti illegittimi o inopportuni in quanto tali, ma deve valutare, di volta in volta, se esista un interesse pubblico alla loro eliminazione diverso dal semplice ristabilimento della legalità violata. Siffatto interesse pubblico non è esplicitato a priori dalla norma, ma deve essere ricavato dalla stessa Amministrazione, caso per caso, attraverso un'attività di "comparazione tra l'interesse pubblico al ripristino della legalità e gli interessi dei destinatari del provvedimento e dei controinteressati"; il tutto, tenendo nella debita considerazione anche la circostanza che il provvedimento da annullare possa avere prodotto effetti favorevoli, valutandone la rilevanza, e che sia trascorso un apprezzabile lasso di tempo (fattore di stabilizzazione) dal momento della sua emissione.

Tali elementi, infatti, integrano la nozione di "stabilità della situazione venutasi a creare per effetto del provvedimento favorevole" e rappresentano un limite all'esercizio del potere di autoannullamento. Pertanto, nella comparazione tra le esigenze sottese a un intempestivo e pregiudizievole annullamento in autotutela dell'atto e quelle sottese alla conservazione di quest'ultimo, l'Amministrazione, in forza del citato art. 21 nonies, è tenuta a optare per la soluzione che meglio contemperi la necessità del ripristino della legittimità e la salvezza degli altri interessi concorrenti.

Pertanto, come recentemente affermato anche da questa Sezione, il vigente art. 21 nonies esclude che si possa procedere all'annullamento d'ufficio in difetto di tutti requisiti ivi individuati (cfr. T.A.R. Veneto, II, 30.9.2010, n. 5242; TAR Veneto, II, 2.4.2010, n. 1268; Cons. Stato, sez. IV, 31.10.2006,n.6465).

Alla luce dei predetti principi, il Collegio rileva che nel caso di specie il Comune resistente, a quasi venti anni di distanza dal rilascio del condono ex lege n. 47/1985 per le opere abusivamente realizzate, si è determinato ad annullarlo nella parte relativa “alla sola edificazione in ampliamento del servizio igienico al piano primo, insistente sulla sede stradale della strada vicinale dei Vanzetti, occludendone il transito”. Orbene, nel provvedimento impugnato l'Amministrazione procedente non sembra né avere operato la comparazione tra l’interesse pubblico all’eliminazione dell’atto e quello del privato al mantenimento della sanatoria, né la valutazione dell’affidamento ingenerato nel privato dal rilascio del condono circa venti anni prima, e sicuramente non ha evidenziato detti passaggi nella motivazione dell'atto impugnato.

 

 

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